I riformisti possono tornare a vincere solo se ritrovano le loro radici
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 11 dicembre 2016
Da ormai parecchi anni i commenti sulle consultazioni elettorali di tutti i paesi democratici sono sempre gli stessi: stupore per la perdita di voti da parte dei partiti tradizionali e uguale sorpresa per l’aumento del peso dei partiti anti-sistema.
Il disagio crescente dell’elettorato e la sua distanza dai governanti sono il tratto comune di questa ormai lunga mutazione politica. Se la crisi delle rappresentanze tradizionali è generale, la fonte del disagio che ne è alla base colpisce soprattutto i partiti dell’area riformista. Essi sembrano, ancora meno degli altri, in grado di interpretare il significato e le conseguenze dei mutamenti in corso.
Così è in quasi tutti i paesi Europei, dalla Spagna alla Germania, dalla Francia alla Gran Bretagna e così è stato negli Stati Uniti, con l’inattesa elezione di Trump.
Per trovare la principale, anche se non unica, spiegazione di questa tendenza è sufficiente riflettere sugli andamenti della distribuzione del reddito in tutti i paesi occidentali negli ultimi trent’anni. Ovunque le distanze fra ricchi e poveri sono aumentate e così l’insicurezza sul lavoro e sul futuro. Una tendenza che ha progressivamente eroso la base del consenso che era propria dei partiti di sinistra, anche perché questo peggioramento nella distribuzione dei redditi ha avuto luogo anche nei lunghi periodi nei quali la sinistra è stata al potere, come nel caso di Blair in Gran Bretagna o, più recentemente, nella Francia di Hollande.
Ricostruire un minimo di riequilibrio nella distribuzione dei redditi rimane ancora l’obiettivo comune di tutti i centro-sinistra del mondo ma è un obiettivo da tutti mancato per un motivo molto semplice: la globalizzazione, ha migliorato l’esistenza di almeno due miliardi di persone ma, dopo il trionfo delle dottrine liberiste degli anni ottanta, si è fondata sulla totale mobilità del capitale di fronte al lavoro, che per definizione è meno mobile. Ogni volta in cui un governo tenta di correggere le distorsioni nella distribuzione i capitali scappano verso altri paesi o verso i paradisi fiscali.
Diventa quindi estremamente difficile mettere in atto l’obiettivo fondamentale su cui si fondavano i partiti socialisti o riformisti durante tutto il secolo scorso e cioè una diminuzione delle differenze dei punti di partenza fra tutti i cittadini e l’uso del welfare (soprattutto sanità e istruzione) per raggiungere equilibri tollerabili.
Tutto ciò ha portato ad un cambiamento radicale del confronto politico: fino agli anni ottanta la contesa elettorale era fra coloro che sostenevano la necessità di maggiori imposte e maggiori servizi sociali e coloro che sostenevano la tesi opposta, cioè minori imposte e minori servizi sociali. Dagli anni ottanta fino ad oggi chiunque parla di aumentare le imposte anche limitatamente alle categorie più abbienti, perde voti. E li perde anche se mette sul piatto il miglioramento e la difesa della qualità del welfare. E perde persino i voti delle persone che riceverebbero sostanziali vantaggi da misure dedicate a una migliore redistribuzione dei redditi e della ricchezza.
L’aumento delle disparità appare insomma come un processo ineluttabile, tanto quasi da provocare una diffusa e fatale rassegnazione. Anche se negli studi accademici la disparità è diventata finalmente uno dei temi più studiati, il mondo politico non riesce a trovare le decisioni necessarie per rimediarvi. La diminuzione dei servizi sanitari gratuiti, l’aumento dei ticket, l’impoverimento dei servizi scolastici che nel secolo scorso provocavano violente reazioni vengono oggi presentati ed accettati come un fatto ineluttabile. Questo senso di impotenza nei confronti del miglioramento della giustizia sociale tronca alle radici gli obiettivi fondamentali del riformismo democratico e ne indebolisce le forze. Alla debolezza dei partiti si accompagna poi quella dei sindacati, privati ormai del peso politico che tradizionalmente ricoprivano in passato.
Questo processo, che va avanti da tanti anni, potrebbe proseguire a lungo anche in futuro ma penso che ci stiamo avvicinando a un punto di rottura. I giovani che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna hanno sostenuto politici che portavano avanti tesi fortemente improntate su un maggiore equilibrio sociale non hanno per ora alcuna prospettiva di conquistare il potere ma costituiscono un’ imprevista riscoperta delle antiche radici del riformismo e presentano una netta frattura rispetto alla diffusa convinzione che i partiti di centro-sinistra, per vincere le elezioni, debbano semplicemente imitare la destra.
Il disagio è troppo grande e troppo si sta allargando: se non vi è la prospettiva di porvi rimedio e se la fiaccola del riformismo continua ad affievolirsi, non vi sarà alternativa ad un populismo radicale che non vuole correzioni ma vuole distruggere le basi della collaborazione internazionale e dell’apertura dei mercati che hanno costruito il nostro sviluppo e che hanno trasformato in senso democratico la nostra società. Il riformismo può porre rimedio alla propria decadenza solo recuperando i valori per cui era nato.
E perché questo obbiettivo possa essere raggiunto i riformismi europei devono lavorare insieme.
E’ evidente che questo processo va messo in sintonia con i grandi mutamenti della società, della scienza, della tecnologia e del mondo dell’informazione ma tutto questo va messo in atto senza perdere la direzione nella quale camminare. Se non si ritrova una bussola non si ritroveranno nemmeno i voti perduti.