Alberto Pasolini Zanelli
È stato uno dei Natali più
turbolenti della storia americana, anche a confronto con le tradizionali
“festività” che, un anno su quattro, precedono l’inaugurazione del nuovo
presidente. Le elezioni del 2016 sono state così tese e contese e cariche di
polemiche che quando il risultato è finalmente uscito dalle urne la campagna
elettorale invece di spegnersi ha accelerato, a Washington e dintorni, i suoi
toni come se ogni giorno si dovesse andare alle urne. Il risultato non l’ha, in
realtà, accettato nessuno. Non solo gli sconfitti ma, ovviamente, soprattutto
loro. Le bordate che dalle sfondate trincee democratiche si abbattono in questi
giorni ed ore su Donald Trump sono senza precedenti per continuità e asprezza.
E lui, l’eletto, invece di sfruttare le settimane intercorrenti tra il voto e
la “inaugurazione” alla Casa Bianca (come di solito fanno i vincitori,
soprattutto quando c’è un cambio non solo di persona ma di partito) per calmare
le acque, consolare gli sconfitti, predicare l’unità nazionale, concedere ai
cittadini un relax, lancia nuovi programmi, nuovi propositi e nuove sfide più
volte al giorno. Non è direttamente aggressivo come i competitori, ma lancia
nuove sassate che incoraggiano qualcuno e inquietano molti, in America e
all’estero.
Il più carico di significato e
anche il più inquietante, è l’annuncio che sotto la sua presidenza la
Superpotenza intende rinnovare e accelerare la corsa alle armi atomiche. Forse
è solo una proclamazione di principio, ma contraddice almeno trent’anni di
storia del mondo centrati sulle iniziative e gli sforzi per diminuire il carico
nucleare con le inevitabili ansietà che esso provoca. Obama si era presentato
con una dichiarazione di intenti di segno opposto. Non è riuscito poi a
migliorare sostanzialmente le cose, anche perché i rapporti fra Usa e Russia,
le protagoniste del riarmo atomico e dell’iniziato disarmo, sono peggiorati
proprio durante gli otto anni di potere di un politico giudicato al suo debutto
come intensamente “pacifista”, al punto da essere insignito del premio Nobel
per la pace prima ancora che mettesse piede alla Casa Bianca. Le buone
intenzioni c’erano, a Washington e forse anche a Mosca, ma i motivi di
disaccordo e tensione, che non si riferivano in sé al nucleare, hanno a poco a
poco logorato i buoni rapporti. Trump è stato eletto sotto una doppia e
contrastante impressione: quello del leader dell’unica Superpotenza deciso a
usarla per riconquistare il terreno che egli più di ogni altro sembra ritenere
che gli Stati Uniti abbiano perduto. In tale contesto ha allarmato ma non
interamente sorpreso l’annuncio delle sue intenzioni di riprendere la corsa al
nucleare; anche perché Putin, sia pure in modi diversi, ha più cautamente
manifestato una tentazione simile.
D’altro canto, però, i due statisti
hanno mostrato durante e dopo la campagna elettorale Usa una viva stima e
simpatia reciproca, carica di buone intenzioni. Convinzione probabilmente
esagerata in parte a causa dello “stile” di Trump: quello di promettere
comunque il contrario di ciò che ha fatto e sta ancora facendo il predecessore
e dalle stanze del Cremlino un contributo senza precedenti alla campagna
elettorale in America nella forma di vero e proprio “tifo” per il candidato
repubblicano. Gioco un po’ spregiudicato ed esacerbato dalla reazione dei
democratici, che approfittano della “benevolenza” di Mosca per l’uomo che li ha
sconfitti per accusare Putin di avere praticamente manovrato e deciso l’esito
delle elezioni americane e, da parte dei columnist
più esasperati, Trump di essere “il barboncino di Putin”. Che a sua volta ha
reagito impartendo alla leadership democratica una sorta di sculacciata,
dicendo che sarebbe ora che “imparassero a perdere”. Opinione rinforzata nelle
ultime ore proprio dal massimo esponente del Partito democratico, il presidente
Obama, che ha evidentemente perso la sua nota e rilevante pazienza e ha
affermato che “se il candidato fossi stato io avrei vinto”.
Ce ne sarebbe abbastanza per
preparare un capodanno vivace. Ma i motivi di tensione e polemica sono numerosi
e svariati. Il più immediato è un nuovo scontro sulla Palestina, ma questa
volta direttamente nella classe dirigente americana: il presidente eletto
contro il presidente tuttora in carica. Occasione l’iniziativa del Consiglio di
sicurezza dell’Onu di “condannare” Israele per il continuo incremento di
insediamenti ebraici in una zona della Palestina che secondo certi accordi
dovrebbe essere riservata agli arabi. Trump è subito balzato sull’occasione ribadendo
il suo appoggio entusiastico e pressoché totale a Israele e al suo discusso
premier Netanyahu, noto anche per i suoi pessimi rapporti con Obama. E Obama
allora ha riacceso la pila del suo potere mettendo il veto all’abitudine degli
Stati Uniti di mettere il veto nel Consiglio di sicurezza a ogni risoluzione di
condanna a Israele e facendo così passare il documento dell’Onu. E così la
campagna elettorale continua in una fase che dovrebbe essere riservata a una
transizione il più pacata e riflessiva possibile. Anno nuovo, presidente nuovo.
Ma nelle novità a volte si esagera.