Brexit e Casa Bianca – Muri e paure la scomoda eredità del 2016
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 31 dicembre 2016
Oggi finisce un anno di importanza storica: il 2016 è infatti l’anno in cui la globalizzazione ha presentato i suoi conti.
Non che la globalizzazione sia un fatto negativo perché l’ingresso di oltre due miliardi di nuovi protagonisti
ha permesso un lungo sviluppo dell’economia mondiale, riaggiustando
almeno in parte gli squilibri che la rivoluzione industriale aveva
prodotto all’inizio del 1800.
Quando tale rivoluzione era cominciata la distanza del reddito
pro-capite fra la Gran Bretagna e i paesi più poveri era di circa dieci
volte. Cinquant’anni fa la distanza fra i paesi più ricchi e quelli più poveri era arrivata ad oltre quaranta volte.
Se le cose fossero continuate in questo modo la catastrofe sarebbe
stata certa. Per fortuna sono andate in modo diverso: la grande Asia e
tanti altri nuovi paesi hanno seguito il cammino dello sviluppo che, a
cominciare dall’Italia, altri popoli avevano percorso dopo il secondo
conflitto mondiale.
Nell’ultimo quarto di secolo la globalizzazione si è poi messa a correre.
Gli investimenti americani ed europei hanno spinto in alto la Cina, che
ha sua volta non solo esporta in tutto il mondo ma spinge in avanti i
paesi vicini e influenza profondamente le economie africane e
dell’America Latina.
Ora sono i nuovi protagonisti che trascinano l’economia mondiale: basti
riflettere sul fatto che un terzo della crescita globale è dovuto alla
sola Cina, ormai diventata uno dei grandi importatori mondiali.
La riduzione degli squilibri ha portato anche ad una cospicua
diminuzione delle differenze dei costi di produzione. Se all’inizio del
grande cambiamento l’ora lavorata costava in Europa quaranta volte in
più che in Cina, ora la differenza è di quattro volte e tenderà ancora a
ridursi. Tuttavia, nel frattempo, la nuova concorrenza ha messo in
crisi le strutture produttive dei paesi più ricchi.
La globalizzazione non è stata infatti gestita e regolata da politiche
concordate ma delegata agli interessi dei singoli governi o, ancora più
spesso, agli obiettivi della grande impresa o della grande finanza.
La diminuzione degli squilibri mondiali è stata quindi accompagnata da un aumento delle differenze
all’interno dei paesi più ricchi, dove le categorie più deboli e più
esposte alla nuova concorrenza si sono sentite tradite e abbandonate.
Nel fatale 2016 questo senso di abbandono e di tradimento si è trasformato in rivolta politica.
Una rivolta che si è espressa in giugno con il voto favorevole alla Brexit e, pochi mesi dopo, con l’elezione di Trump alla Casa Bianca.
Due eventi di importanza storica che esprimono le stesse paure nei
confronti della globalizzazione da parte delle classi medie e
medio-basse, che più di tutte si sentono minacciate dalla paura. Una
reazione che spinge sostanzialmente verso la stessa direzione, di
cercare la salvezza in un nuovo isolamento di tipo nazionalistico.
“America First” e “Brexit”contengono lo stesso messaggio: la nostra
sicurezza ed il nostro benessere sono garantiti solo dal rinchiuderci
dentro alle robuste mura del nostro paese.
Un messaggio che, se trasferito dalla campagna elettorale in concrete
decisioni di governo, non può che produrre un arretramento generale
dell’economia mondiale con un parallelo aumento delle tensioni politiche
e militari.
La storia ci insegna che rotture e tensioni provocano fatalmente altre rotture ed altre tensioni.
Così è stato all’inizio del novecento e così nel terribile periodo tra
le due guerre mondiali e ancora di più accadrebbe se si diminuissero i
flussi del commercio internazionale.
Oggi siamo ancora in tempo a produrre nei nostri sistemi economici gli
incentivi e le correzioni necessarie per la protezione delle categorie
più colpite e per garantire ai nostri cittadini che il futuro non sarà
peggiore del passato. Per raggiungere questi obiettivi occorre però
apprestare cospicue correzioni all’attuale distribuzione dei redditi, al ruolo della finanza
nei confronti dell’economia reale e all’accesso all’istruzione delle
categorie meno privilegiate. Compiti difficilissimi da realizzare,
sopratutto tenendo conto delle complicate coalizioni di interessi che
hanno prodotto il voto di rivolta britannico e americano.
La via più facile per porre freno alle nostre paure sarà forse quella
di tentare di costruire argini e muri non di fronte all’arrivo delle
merci ma al flusso delle migrazioni dai nuovi paesi. Una strada anche questa difficile e pericolosa da percorrere senza la ricostruzione di un clima di cooperazione internazionale.
Resta ora da vedere se la rivoluzione del 2016 proseguirà anche
nell’anno che sta per cominciare. È probabile che nel grande ciclo delle
elezioni del 2016 non ci saranno in Europa cambiamenti radicali ma, se non si provvede a guidare e regolare la necessaria globalizzazione, il progressivo sfaldamento europeo sarà solo questione di tempo.
Penso tuttavia che le difficoltà che avrà Trump nel mettere in atto la sua politica e le conseguenze negative
che la Gran Bretagna subirà dal suo distacco dall’Europa saranno di
insegnamento per tutti noi, ammesso che i governanti si rendano conto
delle correzioni da apportare ai nostri sistemi politici affinché la
paura si trasformi in speranza.
L’arrivo di governanti responsabili: questo è quindi l’augurio che dobbiamo reciprocamente rivolgerci per il difficile anno che sta per cominciare.