Alberto Pasolini Zanelli
All’estero è sopravvissuta una
leggenda: quella del candore nella politica americana. Gli europei, asiatici,
latinoamericani, africani benevoli ritengono che la campagna elettorale sia
conclusa, un nuovo presidente eletto e che si aspetti soltanto di guardarsi in
tv la sua “incoronazione”. In realtà Donald Trump non è stato ancora eletto.
Sono stati scelti dai cittadini i “grandi elettori”, che hanno promesso di
votare per il candidato presentato dal loro partito ma che teoricamente non
sono tenuti a farlo. Una ipotesi che in realtà non si presenta mai, ma che è
tornata di attualità: diversi “grandi elettori” repubblicani in alcuni Stati in
cui la loro elezione è avvenuta con un margine molto ristretto vengono ora
pubblicamente invitati a “ripensarci”, cioè a tradire il candidato per cui si
sono pronunciati e i cittadini che li hanno ascoltati. La posta elettronica
arriva a pioggia ad indirizzi privati in alcuni Stati del Midwest. Essi offrono
l’“occasione” e distribuiscono consigli ai destinatari, con argomenti che vanno
dal fatto, incontestabile, che Hillary Clinton ha ottenuto più voti popolari di
Donald Trump, anche se la distribuzione dei “seggi” nel collegio che fra pochi
giorni, anzi ore, sceglierà ufficialmente il nuovo inquilino della Casa Bianca.
Nessuno pensa veramente che possa
esserci un travaso di voti sufficiente a capovolgere l’esito elettorale. Si
troveranno, al massimo, un paio di “transfughi”. Se si insiste in questa
subcampagna è per poter continuare a dichiarare che la contestazione è ancora
in corso anche dopo il fallimento di una manovra più sensata e più “pulita”, un
secondo conteggio in alcuni Stati dove il distacco fra i due candidati è stato
minimo e si possono dunque invocare o errori di conteggio o brogli. Non ha
funzionato. In uno degli Stati presi di mira, vinto da Trump col margine
ristretto di diecimila voti, alla fine del ricalcolo è venuto fuori che Hillary
ne ha recuperati in tutto 82.
Non è questo il solo segnale che la
“campagna” continua. Basta ascoltare, guardare e leggere le decisioni e gli
argomenti che piovono da ambo le parti. Democratici e repubblicani sono
impegnati in una ennesima gara di argomenti. Trump, nuovo al gioco ma
lucidissimo nelle manovre post elettorali, continua a chiedere consensi, come
se non si fosse votato. Fa promesse, nomina i suoi futuri collaboratori,
disegna una “America nuova”, pesca fra quei repubblicani che l’avevano
avversato duramente all’epoca delle primarie. Li recupera, una manata sulle
spalle e via, in una apparente continuità nella strategia del partito che fu di
Lincoln e di Reagan. In realtà molte cose cambieranno, tante di più rispetto
alla “norma” insita nel cambio di presidente. È evidente ad esempio un ruolo
assai maggiore dei militari. Già tre generali in pensione sono stati prescelti
da Trump per ricoprire cariche centralissime e decisive. Non sono tutti
“falchi”, come si poteva dedurre dalle dichiarazioni del candidato durante la
campagna elettorale. Una cosa che sorprende solamente i candidi: per il resto è
già noto, è già una tradizione che i militari non siano quasi mai fra i fautori
di guerre, che soprattutto in America vengono decise dai politici o magari
dagli economisti. Certe scelte potrebbero più facilmente essere coerenti con la
“filosofia” di Barack Obama, notoriamente reticente all’uso del cannone,
piuttosto che a Donald Trump, dedito ad una retorica aggressiva. Ma di nuovo
l’apparenza inganna: della Cina, che molti considerano il rivale futuro degli
Usa, ci va un amico della dirigenza di Pechino, non solo a chiacchiere ma anche
nei contratti industriali e finanziari.
Quanto alla Russia, non ce n’è
bisogno: le dichiarazioni di Trump durante e dopo la campagna elettorale
indicano una massima apertura nei confronti di Mosca, soprattutto verso la personalità
di Vladimir Putin. Frasi tanto calorose (e ricambiate dal Cremlino con
effusioni comparabili) acutizzano l’ostilità, i sospetti di quasi tutti i
democratici, a cominciare da Hillary Clinton che anche su questo ha perduto
voti.
E qui spunta una battaglia inedita:
fra l’Fbi e la Cia. Durante la campagna elettorale divennero pubblici documenti
che dimostravano come l’establishment del Partito democratico abbia fatto tutto
il possibile per aiutare Hillary e per “sabotare” la campagna del suo unico concorrente
dentro il partito, Bernie Sanders. Le rivelazioni vennero dai protagonisti dei
violatori di segreti, quasi tutti americani. Ma la coincidenza nell’ostilità
alla Clinton fra Putin e il campo di Trump fu ulteriormente accentuata allorché
subito prima del voto presidenziale vennero fuori documenti segreti o
semisegreti della campagna della Hillary e i democratici reagirono incolpando
della manovra i servizi segreti e dunque il governo russo, mentre la Cia
segnalò, proprio alla vigilia delle elezioni, certe iniziative della Clinton
che avrebbero violato codici di segretezza. Una rivelazione non nuova, che ha
dato vita però a una polemica quasi aperta e comunque esplicita fra i due
pilastri dei servizi segreti Usa: lo spionaggio militare contro quello civile e
viceversa. A colpi di indiscrezioni e di polemiche. Quasi fosse una nuova, vera
campagna elettorale.