L’altalena del barile – Quella svolta che manca sul petrolio
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 04 dicembre 2016
In questi giorni si parla molto di petrolio, per capire quello che è successo e per prevedere quello che avverrà in futuro. Parlare del passato è facile, mentre esibirsi in previsioni è più complicato. In poche righe proveremo a tentare un compromesso, cioè di richiamare alcuni punti fondamentali del passato per tentare sensate ipotesi sul futuro. Senza che questo si trasformi in vere previsioni.
Il momento determinante del crollo del prezzo del petrolio è fatto risalire alla riunione OPEC del 27 novembre 2014 a Vienna, dove l’Arabia Saudita decise di non calare la produzione nonostante l’eccesso di offerta di greggio sul mercato, pur sapendo benissimo che questo avrebbe fatto crollare i prezzi. Questa decisione, per molti osservatori incomprensibile, aveva obiettivi molteplici: mettere alle corde il nemico Iran, gettare fuori mercato i nuovi protagonisti del mercato del petrolio (cioè i produttori americani di Shale Oil) e rallentare il ritmo di estrazione dei nuovi giacimenti che stavano entrando in produzione per effetto dell’impressionante mole di investimenti realizzati in precedenza dalle grandi compagnie multinazionali.
In parole molto semplici l’Arabia Saudita, paese fornito di enormi riserve finanziarie e produttore a costi più bassi di tutti, voleva mettere fuori gioco il più elevato numero possibile di concorrenti, in modo da non intaccare le proprie quote di mercato.
Naturalmente il prezzo del petrolio è crollato, passando da oltre centodieci dollari al barile a un minimo sotto i trenta all’inizio di quest’anno.
Come prevedevano i sauditi, molti dei nuovi produttori americani sono andati fuori mercato ma, nel frattempo, si sono migliorate tecnologie e produttività così da diminuire in modo impressionante i costi di estrazione sia dello Shale Oil che del petrolio convenzionale. In alcuni giacimenti il crollo è stato di oltre il 40%: chi è sopravvissuto si è rafforzato, nuovi protagonisti stanno entrando nel mercato e sono ora gli Stati Uniti, e non l’Arabia Saudita, i più grandi produttori di idrocarburi nel mondo.
Il concorrente iraniano, anche in conseguenza di una prospettata distensione dei rapporti politici, sta lentamente recuperando il ruolo che aveva avuto in precedenza e le grandi compagnie internazionali, pur avendo fatto drasticamente calare i nuovi investimenti (da 700 miliardi di dollari del 2014 a 400 miliardi nel 2016: calo mai registrato) hanno continuato a fare funzionare a ritmo elevato i giacimenti già in produzione.
L’equilibrio fra la domanda è l’offerta di petrolio si è andato gradualmente stabilizzando ad un livello dei prezzi molto più basso di quello che i governanti sauditi avevano previsto al momento in cui avevano deciso di continuare a spingere al massimo la loro produzione, mentre le loro pur immense riserve di denaro si sono andate rapidamente assottigliando con la necessità di attingere alla finanza internazionale.
Da qui il cambiamento di rotta avvenuto negli scorsi giorni alla riunione OPEC di Algeri dove l’Arabia Saudita ha annunciato, insieme ad altri paesi consociati, la decisione di ridurre la produzione di grezzo. A questa decisione si sono uniti anche paesi produttori estranei all’OPEC, tra i quali la Russia, fortemente colpita dal ribasso dei prezzi degli idrocarburi.
I prezzi sono subito balzati sino a 54 dollari al barile, circa 15 in più di metà novembre, e molti pensano che sia cominciata una nuova corsa al rialzo. Sempre che l’intesa di Algeri tenga.
A consolazione dei paesi importatori come l’Italia non credo che questo avvenga perché un prezzo stabilmente sopra i 50 dollari spingerebbe migliaia di produttori americani di Shale Oil a ricominciare a pompare mentre gli investimenti delle grandi compagnie, anche se più lentamente, comincerebbero a risalire, impedendo un ulteriore forte aumento dei prezzi.
Pur restando fedele al fatto che descrivere il passato è più facile che prevedere il futuro, è ragionevole quindi pensare che il prezzo del greggio non dovrebbe spingersi oltre i 55 dollari al barile, stabilizzandosi in una possibile fascia di equilibrio tra i 45 e i 55 dollari, rimanendo quindi sotto la metà del prezzo raggiunto prima della recente crisi.
Si tratta naturalmente di ragionamenti che prescindono dalla possibilità di nuovi sconvolgimenti politici o di ulteriori radicali cambiamenti delle tecnologie.
Questa prudenziale riflessione si spinge naturalmente nel futuro per un limitato numero di anni perché, guardando più lontano nel tempo, l’implementazione dell’Accordo di Parigi per la limitazione delle emissioni clima-alteranti dovrebbe portare alla progressiva marginalizzazione dei combustibili fossili tra i quali, ovviamente, primeggia il petrolio.
Naturalmente quando si legge nel nuovo piano quinquennale la decisione della Cina di aumentare al 2020 la potenza elettrica a carbone del 20% per 200 Gwe (pari a quella della Germania) o che in Germania si aprono nuove miniere a lignite (ancora più inquinante del carbone) non possono che nascere seri dubbi sulla concretezza delle nuove politiche ecologiche decise nel grande summit che voleva salvare il mondo.
Penso infatti che le cose cambieranno veramente solo quando i sindaci delle metropoli più inquinate del mondo, a partire dalla Cina e dall’India fino ad arrivare alla pianura padana, saranno costretti a proibire il traffico delle automobili non elettriche dal loro territorio. A questo punto però ci allontaniamo dalle pur incerte previsioni per rifugiarci nei desideri o nei sogni.