Alla ricerca di un’anima leggera.
Gli ultimi lavori di Tere Grindatto, tele libere e scure fissate a muro, ci ricordano una ricerca che lavora alacremente attorno al senso dell’origine, quale configurazione dell’enigma, sempre in metamorfosi, che sta al fondo di noi stessi. Il racconto dell’origine è ancora, un racconto di luce e di tenebre, di serenità e di passione, scritto non tanto sulla misura dell’uomo di oggi, bensì di antichi esseri divini, che non erano però esenti dalla sofferenza e dall’errore. Ecco perché ci troviamo di fronte opere, in cui compare, come in filigrana, la traccia di un apparizione corporale. Le immagini che ci colpiscono di più sono “sindoni”, e talora magari plasma sindonico fluidificato. Esse diventano nello stesso tempo un evento esistenziale e spirituale, la cui affermazione coincide con l’epifania stessa dell’idea estetica. La “sindone”, o anche la “veronica”, diventa quindi la metafora di un nulla immaginabile e insieme e misterioso, e pertanto ciò che nella “natura morta” fuoriesce come impronta incorporea di ciò che è stato, viene mostrato che la “natura” è morta, ma appare anche il peculiare tipo di questa morte, che non può restare “morte” perché si trasforma sempre, alchemicamente, in rinnovata “materia”. L’artista infatti usa stoffe, ovatte, veli, reti metalliche leggere, garze imbottite, plastiche imbrattate, che trapassa volentieri con fili veloci, tracciando dei percorsi labirintici, mentre piccoli tubi di metallo, spille , aghi, creano “immagini” intense, e “segni” pungenti, i quali danno conto che prima di tutto c’è stata una realtà, magari dolorosa.
L’opera vive di una specificità fisica relativa ai vari materiali di fondo che sono legati ad un’idea di leggerezza, di vuoto e di pieno, una leggerezza capace di muovere le strutture, o i segni che si appoggiano sulla superficie del lavoro, in modo che diventino delle antiforme, la cui immagine è dettata dalla collocazione fisico-spaziale che le definisce. I materiali, spesso di recupero, segnati dal tempo, oppure fluttuanti su una base acrilica, attraverso il loro spessore esibiscono una materialità volatile, evidenziano un legame forte con l’ambiente e la vita quotidiana della Grindatto. Il risultato di questa ricerca dimostra che l’oggetto “corpo” che sta annidato nel sottosuolo della creazione viene recuperato a una nuova soggettività, che necessita di concettualizzazioni di diversa temperatura per arrivare ad indagarlo e a descriverlo. Non si propone quindi mai una distinzione corpo-mente, come paradigma da superare, bensì si richiama l’attenzione sulle zone di confine, ma pure di ibridazione, e sulla loro indubbia capacità di declinare un disagio legato all’esistenza presente e alla condizione femminile.
Sintomatico è il fatto che alcuni quadri ostentino di essere circondati da una sorta di “cornice” fatta di materia, o di colore, come se l’artista cercasse non di inquadrare il vuoto, ma se mai un bisogno di chiudere, o aprire, un campo per l’azione, di dare un limite allo spazio della ricerca, per sottolineare che la scena che sta al “centro” dello spazio , può sporgersi sul mondo. La Grindatto sente l’opera-- che sta prendendo sempre più lo spazio di un bassorilievo, magari carico di umori ironici-- come un campo di tensioni, “scontro di situazioni”, “campo di battaglia”, in cui non si danno vincitori, ma vige un annoso conflitto. Tutto questo si configura come un racconto che si intreccia intorno all’”esserci”, con le sue contraddizioni e le sue “spine”, sempre popolato di dislivelli temporali e di punti di fuga, che ci riconducono in quei territori dove si scoprono nuovi e dolorosi problemi da attraversare.
L’artista si muove dunque fra corpi sommersi, nascosti, fra segni così lontani da essere soprattutto ricordo. Essa sa che il senso che traspare nei suoi corpi senza corpo è la nostalgia di un senso e di un valore, che viene proiettata sull’apparenza degradata di un significato che non è immediatamente afferrabile, ma di cui si sente l’esigenza.. Sappiamo, ormai da tempo, che la bellezza artistica non è mai così seducente da ipnotizzarci e fare in modo che noi posiamo ignorare l’esistenza di realtà strane e irregolari, le quali stanno lì quasi a ricordarci che l’equilibrio non sempre può essere raggiunto, che siamo quasi sempre incapaci di trionfare sulle anomalie, o sulla disarmonia, che da un momento all’altro può ricomparire, come un ciclone, nella vita di tutti noi.
Marisa Vescovo
Docente di Fenomenologia dell’Arte Contemporanea, Università di Genova
Critico d’Arte – Biennale di Venezia
L’opera vive di una specificità fisica relativa ai vari materiali di fondo che sono legati ad un’idea di leggerezza, di vuoto e di pieno, una leggerezza capace di muovere le strutture, o i segni che si appoggiano sulla superficie del lavoro, in modo che diventino delle antiforme, la cui immagine è dettata dalla collocazione fisico-spaziale che le definisce. I materiali, spesso di recupero, segnati dal tempo, oppure fluttuanti su una base acrilica, attraverso il loro spessore esibiscono una materialità volatile, evidenziano un legame forte con l’ambiente e la vita quotidiana della Grindatto. Il risultato di questa ricerca dimostra che l’oggetto “corpo” che sta annidato nel sottosuolo della creazione viene recuperato a una nuova soggettività, che necessita di concettualizzazioni di diversa temperatura per arrivare ad indagarlo e a descriverlo. Non si propone quindi mai una distinzione corpo-mente, come paradigma da superare, bensì si richiama l’attenzione sulle zone di confine, ma pure di ibridazione, e sulla loro indubbia capacità di declinare un disagio legato all’esistenza presente e alla condizione femminile.
Sintomatico è il fatto che alcuni quadri ostentino di essere circondati da una sorta di “cornice” fatta di materia, o di colore, come se l’artista cercasse non di inquadrare il vuoto, ma se mai un bisogno di chiudere, o aprire, un campo per l’azione, di dare un limite allo spazio della ricerca, per sottolineare che la scena che sta al “centro” dello spazio , può sporgersi sul mondo. La Grindatto sente l’opera-- che sta prendendo sempre più lo spazio di un bassorilievo, magari carico di umori ironici-- come un campo di tensioni, “scontro di situazioni”, “campo di battaglia”, in cui non si danno vincitori, ma vige un annoso conflitto. Tutto questo si configura come un racconto che si intreccia intorno all’”esserci”, con le sue contraddizioni e le sue “spine”, sempre popolato di dislivelli temporali e di punti di fuga, che ci riconducono in quei territori dove si scoprono nuovi e dolorosi problemi da attraversare.
L’artista si muove dunque fra corpi sommersi, nascosti, fra segni così lontani da essere soprattutto ricordo. Essa sa che il senso che traspare nei suoi corpi senza corpo è la nostalgia di un senso e di un valore, che viene proiettata sull’apparenza degradata di un significato che non è immediatamente afferrabile, ma di cui si sente l’esigenza.. Sappiamo, ormai da tempo, che la bellezza artistica non è mai così seducente da ipnotizzarci e fare in modo che noi posiamo ignorare l’esistenza di realtà strane e irregolari, le quali stanno lì quasi a ricordarci che l’equilibrio non sempre può essere raggiunto, che siamo quasi sempre incapaci di trionfare sulle anomalie, o sulla disarmonia, che da un momento all’altro può ricomparire, come un ciclone, nella vita di tutti noi.
Marisa Vescovo
Docente di Fenomenologia dell’Arte Contemporanea, Università di Genova
Critico d’Arte – Biennale di Venezia
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