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Hard world, soft power

(da Roberto Razeto, Milano riceviamo e volentieri pubblichiamo)




La sfida di Obama alla caccia del soft power. Si parla dell’attuale transizione alla Presidenza degli Stati Uniti d’America come una delle più imponenti e cruciali di sempre. I media gestiscono le trattative e le negoziazioni per la definizione della squadra di governo come un processo di interesse centrale per l’assetto politico internazionale. I cittadini, americani e non, discutono con fermento le prospettive di cambiamento e le politiche in atto. Nel complesso gli Stati Uniti hanno mutato, o riscattato, un’immagine fortemente “neo-con” – quella dell’amministrazione Bush, di Paese autoritario e autorità del mondo globalizzato, di promotore di un moderno “Marshall plan” che ha portato sempre e comunque all’attuazione globale di azioni invasive espressioni di una politica di interesse strettamente nazionale – in una che esprimesse un modello per la democrazia mondiale, un punto di riferimento per il dialogo interculturale, un esempio di sistema di idee politiche e sociali democratiche che permettesse una rinata coscienza e sensibilità civile. Dal processo “molto nazionale e interno” delle primarie, alla corsa per la Casa Bianca, l’immagine di Obama, il suo nome e le sue parole, hanno ripulito e compiuto un lifting al viso di “Uncle Sam” come mai era successo in precedenza. E’ stato il ritorno in auge di un processo di quello che in molti definiscono “soft power”. “Soft power is a term used in international relations theory to describe the ability of a political body, such as a state, to indirectly influence the behavior or interests of other political bodies through cultural or ideological means”, despite of “more direct coercive measures called hard power such as military action or economic incentives”. Soft power è il termine da utilizzare in riferimento all’efficace comunicazione, attraverso i media globali, degli Stati Uniti come esempio di democrazia e come modello di progresso della società civile. Era da ormai quasi dieci anni che non si parlava più in maniera strutturata e reale dell’America come modello positivo. Ed ecco che lo sforzo e la lotta di decenni per la democratizzazione delle idee, specialmente quelle riguardanti la razza, hanno avuto la propria esemplificazione nell’elezione del candidato di colore alla posizione di poter più influente del mondo. E’ stata, inoltre, la vittoria dei discorsi sulla speranza, sulla possibilità che risiede e giace in ognuno di noi, sulla voglia di cambiamento in meglio, anche attraverso una maggiore responsabilizzazione di ogni singolo cittadino. Ciò porta al compimento e alla conclusione, o perlomeno a una fase crepuscolare, delle idee di liberismo e di comunismo economico tout court, della real politik unita al cinismo di chi vuole che il processo, anche se disdicevole a livello etico, sia inevitabile, di due facce contrapposte di un Giano ormai invecchiato e stanco. La circolazione dei termini della speranza sono una grande sfida che, come afferma Slavoj Zizek, “hanno già dato un valore positivo alla vittoria di Obama”. La solidità delle aggressive strutture liberiste all’interno del brain frame mondiale rimane un dato all’oggi inossidabile. La questione rimane, dunque, aperta: Si potrà agire un cambiamento? Si potrà far entrare il termine sostenibilità, a pieno diritto, nel vocabolario della politica internazionale? Il soft power potrà essere lo strumento della progresso e del cambiamento?

Roberto Razeto

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