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Quanti boss in Italia?

Claudio Antonelli ci scrive da Montreal

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In Italia sono tutti “boss”


“Presi i boss della strage di Castelvolturno”, annuncia il “Corriere della Sera”. Nell’articolo poi si apprende che sono stati catturati tre (presunti) esecutori della strage che fece 6 vittime tra gli immigrati africani di quella località campana. Nel corpo dell’articolo, i tre assassini, anzi i tre “killer” sono immancabilmente designati come “boss”.
Confesso di non capire. Boss non significa capo? Ma da quando in qua i capi si espongono eseguendo personalmente questo tipo di spedizioni punitive? Normalmente, nella malavita, i capi sono gli ideatori, i mandanti dei misfatti. Ad eseguire sono i subordinati, i sicari, i “soldati”. Inoltre, quanti capi ci sono nella camorra di Castelvolturno? Dopo la cattura di questi tre capi, ce ne sono rimasti altri? O non ci sono più capi in quel di Castelvolturno?
Grazie ai giornalisti italiani, negli eserciti della malavita della Penisola sono diventati tutti generali: sono tutti “boss”. E così la polizia cattura solo capi, solo “boss”. Anche le vittime dei regolamenti di conti sono sempre e solo “boss”. Mai che venisse eliminato qualcuno che non sia ai vertici della malavita, ossia un “non boss”: un subordinato, un picciotto, un bandito, un malvivente, un sicario, uno sgherro, un semplice malavitoso...
Il rigoglio anarchico e capriccioso nella lingua italiana di termini anglo-americani, usati quasi sempre a sproposito, non è un segno di vitalità – come invece sostengono tanti “Italians” campioni di trasformismo e di “western-spaghetti” – poiché questi termini importati hanno come conseguenza di atrofizzare il nostro vocabolario. Lo dimostra appunto il termine “boss” che dovrebbe dire “capo”, ma di cui i giornalisti si servono sempre a sproposito, o per dirla alla napoletana (usando la parola capo) – se mi permettete questa espressione volgare – si servono “a ccapa ‘e c...”.

I “tempi lunghi”
Il giornalista Vittorio Zucconi, nel presentare ai suoi lettori il libro di Barack Obama “In the Long Run”, ne traduce il titolo con un atroce: “Sui tempi lunghi”.
È un fenomeno linguistico dilagante la tirannia di “tempi brevi”,“tempi lunghi”, questo sintagma del gergo burocratese degli uomini del Palazzo.
Tutta una varietà di espressioni esprimenti l’idea del tempo è stata sacrificata sull’altare di questi onnipresenti “tempi brevi” , “tempi lunghi”, più adatti ad una carta da bollo che alla pagina di un quotidiano o di un libro.
“In the Long Run” vuol dire “a lungo termine”, “a lungo andare”, “a lunga scadenza” “alla lunga”, “a lungo”... espressioni tutte sparite dal parlare e dallo scrivere odierni. Finiti anche l’“arco” e il “lasso di tempo”, brevi o lunghi che fossero. Depennati dal vocabolario corrente anche “rapidamente”, “celermente” e via discorrendo. Tutti sostituiti da “tempi”, sempre al plurale, accompagnati da “lunghi”, “brevi” (e qualche volta “stretti”).
I “tempi lunghi” cominciano però ad essere insidiati da “nel lungo periodo”, altra icastica espressione cara alla casta dei politici, che nulla fa rapidamente se non quando decide di aumentarsi retribuzioni e privilegi. Tempi grigi, insomma, per la lingua italiana, e ciò sia nel “breve” che nel “lungo periodo”.

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