Alberto Pasolini Zanelli
Vladimir Putin ha
vinto le olimpiadi di Sochi. Ha portato a casa un bel sacchetto di medaglie e
soprattutto la soddisfazione della smentita delle previsioni catastrofiche che
erano circolate, forse non a caso, in Occidente all’immediata vigilia. Sono rimasti
fuori, soprattutto, i terroristi la cui ombra si era stesa sull’intera celebrazione,
teoricamente solo sportiva. Ma per il resto il presidente russo è rientrato al
Cremlino sotto il peso di una sconfitta politica, non definitiva ma per ora
innegabile. Da Kiev Putin non ha riportato a casa nemmeno una medaglietta di
bronzo. La crisi ucraina, certo non risolta, presenta tuttavia un bilancio
provvisorio negativo per la Russia. Sulle
piazze ucraine si è ripetuto, aggravato e tinto di sangue, il sogno della
Rivoluzione Arancio, trasformandola di nuovo in una copia della Primavera del
Tahir del Cairo.
Quella sulla piazza
Maidan di Kiev nacque tre anni fa dalla ribellione a un test elettorale
inquinato e portò sul momento alla vittoria dei partiti “occidentalisti”, che
aspiravano a integrare il Paese in Europa e nella Nato, tranciando il cordone ombelicale millenario con la Russia. Però poi gli
“amici” di Mosca rivinsero le elezioni e, tornati al potere, ne abusarono, per
esempio gettando in carcere il leader uscente Julija Timoshenko. Il nuovo
presidente Yanukovich aveva cercato, per il resto, di barcamenarsi, tenendosi
buono Putin e incamminandosi sulla strada di una cooperazione con l’Ue. Finché
fu costretto a scegliere e proprio nei giorni in cui avrebbe dovuto concludere
le trattativa con Bruxelles, si tirò indietro, “convinto” da un massiccio
prestito finanziario del Cremlino. Dal quel giorno la parola è tornata alla
piazza e il governo ha alternato invano repressione e concessioni, ammanettando
i critici un giorno sì e cooptandoli al potere un giorno no. Ma non è riuscito
a fermare la piazza, ad evitare che la violenza prendesse il sopravvento. Alla
fine la pacifica protesta è degenerata in golpe. Il Parlamento ha “cacciato” un
presidente che era stato eletto dal popolo. Julija Timoshenko è uscita
dall’infermeria del carcere, Yanukovich è partito per l’esilio. A Kiev è
rifiorita una speranza che rischia però di confondersi con lo smarrimento. Putin
ha cercato di evitare tutto questo, ha scelto le mosse sbagliate, ha perso.
Per ora. Perché della
crisi ucraina conosciamo un bollettino della vittoria, non una soluzione.
L’unica cosa chiara è come essa è nata: da una crisi economica, anzi dal
peggioramento continuo di impoverimento del Paese, dai tentativi dei suoi
governanti (gli uni e gli altri, gli “europeisti” e i “russofili”) di risolverla
con l’aiuto dell’estero. L’Ucraina è e resta in condizioni economiche
disastrose. Il reddito mensile della maggior parte dei suoi 45 milioni di abitanti
si aggira sui 50 euro, la disoccupazione è enorme, enorme l’emigrazione verso
le aree prospere della Russia ma soprattutto verso tutti i Paesi
dell’Occidente. Li vediamo arrivare, sono milioni, in grande maggioranza donne.
L’Ucraina ci dona le sue badanti.
L’Occidente aveva
da offrire una miscela tra qualche aiuto immediato, molte promesse, un
ambizioso programma di semi integrazione politica. Il governo di Kiev si era barcamenato,
sperando di poter fruire di una specie di asta fra l’Ue (con il sostegno neppur
troppo discreto dell’America) e i contanti che Putin era pronto a calare sul
tavolo: un prestito di 15 miliardi e uno sconto del 35 per cento sulle
forniture energetiche. Yanukovich ha scelto Mosca, non prevedeva che ne sarebbe
scaturita una rivolta molto simile a una rivoluzione. Forse sperava che
l’Occidente avrebbe “rilanciato”, magari attenuando per l’occasione i toni severi
e poco invitanti dell’Austerity. Invece diversi governi europei hanno soffiato
sul fuoco. Caso limite la
Polonia , il cui ministro degli Esteri ha minacciato i leader
della protesta di abbandonarli se non si fossero attenuti alle sue istruzioni:
“Altrimenti – ha detto – vi troverete addosso la legge marziale, l’esercito. E
sarete tutti morti”. L’America ha tenuto altri toni, diversi però dal consiglio
che il presidente Usa, George H. Bush, diede vent’anni fa da un balcone sulla
Maidan a una folla plaudente: “Portate pazienza, date la precedenza alla
democrazia sull’indipendenza”. Lo ascoltarono allora, non oggi.