News and comments from the Capital of the United States (and other places in the World) in English and Italian. Video, pictures, Music (pop and classic).
Premio internazionale "Amerigo".
Può l’Occidente
imparare qualcosa da delle elezioni locali in Turchia? Molti ne dubiteranno,
immersi come sono in ansie più immediate, e più vicine anche nello spazio della
vicenda personale di Tayyip Erdogan, che dopo un decennio di potere quasi
incontrastato e coronato da successi economici eccezionali, ha rischiato nelle
ultime settimane di essere travolto da una sollevazione politica e morale di
larghi strati della popolazione turca: al punto da doversi aggrappare alla
prova del fuoco di elezioni originariamente locali. La miccia fu accesa da una innocente
protesta di natura ecologica riguardante un parco di Istanbul ma la detonazione
è venuta dalla pubblicazione su dei siti web di “scandali” finanziari di
partito e familiari, cui egli ha reagito con gesti autoritari quali la chiusura
di Twitter. Ma la voce della contestazione si è fatta ancora più forte, anche perché
ha trovato una “guida spirituale” in un religioso di nome Fethullah Gulen, ex
alleato di Erdogan e che ora vive negli Stati Uniti. Gli scontri di piazza si
sono moltiplicati, dei ministri hanno preso le distanze dal premier, chieste le
sue dimissioni. Si sono ingarbugliati nel frattempo i suoi rapporti con
l’Occidente e soprattutto con l’Europa proprio mentre Erdogan manteneva un
ruolo di punta nelle complesse operazioni politico-militari contro la Siria. Lui si dà da fare, dice,
per abbattere un regime, egli è stato messo, quasi, con le spalle al muro sotto
l’accusa di guidarne lui un altro. La spinta finale dovevano essere queste
elezioni amministrative, che il calendario avrebbe messo come una pietra per
farlo inciampare nella sua fuga verso una “promozione” da primo ministro a
Presidente della Repubblica.
Poi i turchi sono
andati alle urne e ha vinto lui, in misura quasi plebiscitaria. Il partito di
Erdogan ha ottenuto il 46 per cento dei suffragi distanziando di ben 17 punti
la principale opposizione. Ha vinto ad Ankara e ad Istanbul, è stato superato
solo nell’area curda e nei centri costieri come Smirne ha conservato il
plebiscitario consenso dell’Anatolia rurale. Erede dell’Impero Ottomano, la Turchia ha molti vicini
tutt’altro che nostalgici del suo passato dominio. Ha confinato a lungo con la Russia (ha occupato per un
certo tempo la Crimea),
ora confina da un lato con la
Grecia e la
Bulgaria, dall’altro con il Caucaso, l’Iran e la Siria (anche la Palestina è stata dominio
turco fino al 1918, quando già vi si insediavano i sionisti). Con Damasco i
rapporti sono attualmente tesi, da quando Erdogan si è lasciato sospingere dal
“vento della storia”, ospitando e armando i guerriglieri anti Assad (ancora
l’altro giorno l’aviazione turca ha abbattuto un aereo siriano). In compenso
Ankara ha conosciuto negli ultimi anni un vero e proprio boom economico, tale
da essere definito “alla cinese”, che le ha permesso di intiepidire i suoi
slanci europei, mai ricambiati. Ed è probabilmente a questo che i turchi hanno
finito col pensare soprattutto invece che alle polemiche scandalistiche e alle risse
della classe politica. Hanno votato, cioè, “col portafoglio”.
Qualcuno in
Occidente li criticherà per avere messo in secondo piano proteste e gli aneliti
così diffusi fra i vicini arabi da un paio di “primavere”. Dovremmo invece
cercar di capire il perché. Questoo voto
“spassionato” e sostanzialmente conservatore è anche una risposta a una certa
moda e a una diffusa illusione in Occidente: la potenza dei social network e la
saggezza delle piazze. La piazza Taksim a Istanbul doveva essere l’equivalente della
Tahrir del Cairo e della Maidan a Kiev, culle di rivoluzione innanzitutto “morale” e
liberatrice, in qualche modo moralmente superiore alle scelte delle urne, un
“potere popolare” insaporito dai “cinguettii” informatici. Quella che viene
dalla Turchia è una smentita in più al mito che la piazza abbia sempre ragione,
le dimostrazioni e le marce siano il solo viale del Progresso e sempre
positive. Mentre invece la piazza a volte abbatte dei tiranni ma più spesso
svuota le istituzioni democratiche, soprattutto quando sono fragili. Un predecessore
di Gulen fu, non dimentichiamolo, Khomeini dal suo esilio di Parigi. La
protesta popolare in Siria ha fruttato finora tre anni di sanguinosa guerra
civile, in Egitto ha portato un’alternanza fra gli estremisti islamici e le
dittature militari. E anche a Kiev la Rivoluzione Arancio
di quattro anni fa riuscì soprattutto a destabilizzare l’Ucraina mentre il bis
odierno ne ha compromesso anche le frontiere. Meglio le urne, dunque, dei
sassi, di Twitter, degli ayatollah giustizialisti, dei cecchini nelle strade.
Parliamo del caso dei due marines italiani con un esperto di cose indiane che chiede di mantenere l'anonimato. Considerando la posizione professionale del nostro interlocutore aderiamo a questa richiesta.
"I media italiani fannno veramente schifo. Dopo la pronuncia della Corte Suprema indiana che ha rimandato a luglio l'esame del caso, confermando che i due militari italiani non saranno sottoposti alla normativa antiterrorismo che prevede la pena di morte, si e' alzato immediatamente un coro di laudatores che inneggiavano alla vittoria italiana. In effetti non c'e' alcuna vittoria dell'Italia, nonostante i tentativi di fare di questa vicenda un caso internazionale che metta alle corde il governo indiano.
La realta' e' che i due marines italiani resteranno nel compound dell'ambasciata italiana a Delhi ancora per molto. Non cesseranno le visite di numerosi gruppi di familiari stretti e meno stretti a carico del contribuente italiano che paga per aerei e alberghi a cinque stelle. Non cesseranno le visite di parlamentari nostrani che servono a nulla perche' gli indiani continuano a sbattere sul muso degli italiani le porte di ministri e dirigenti. Nessuno si chiede perche' Pierferdinando Casini abbia fatto una missione in India tirandosi dietro un nutrito numero di rappresentanti dei partiti felici di farsi una vacamza. Nessuno si chiede perche' il ministro uscente della difesa del governo Letta abbia voluto anche lui portare il suo contributo di affetto ai due militari a pochi giorni dalla sua uscita dal governo. Nessuno si chiede perche' la nuova ministra degli esteri del governo Renzi abbia voluto fare una toccata e fuga in India a salutare i marines, comunemente identificati come 'maro' (termine usato in marina per i mozzi. I due sono specialisti fucilieri). La ministra ha fatto sapere che andava in India a titolo personale. Significa che ha provveduto di tasca propria a coprire le spese del suo viaggio? Aha, saperlo.
Queste ostentate manifestazioni di affetto nazionalistico non rialzano certo il morale dei due poveretti che si trovano strapazzati in una tragica situazione della quale ignoravano i contorni quando hanno creduto di fare il proprio dovere.
Pochi sanno che un caso simile ha visto coinvolta una nave americana che portava a bordo dei fucilieri antiterrorismo piazzati come contractors e non certo militari che con la loro divisa avrebbero rappresentato la nazione d'origine. Sembra che anche in questo caso ci sia stato uno scontro a fuoco con i membri di un motoscafo, pare con vittime. La nave ha proseguito il suo percorso in acque internazionali e non ha certo attraccato in un porto indiano.
Gira poi la voce che per quanto riguarda il caso italiano, dopo gli spari il comandante della nave abbia chiamato il suo armatore.Questi si sarebbe messo in contatto con il ministero Marina italiana ricevendone istruzioni. Quali istruzioni" Chi le ha date? A che titolo?
Ed infine: perche' l'ambasciatore italiano, Daniele Mancini, (richiamato per consultazioni urgenti dalla allora ministro degli esteri, Emma Bonino, risulta essere ancora a Roma? Chi dirige la nostra rappresentanza diplomatica a garanzia delle migliaia di italiani che lavorano con successo in India? Forse il signor Staffan De Mistura considerato dai colleghi della Farnesina piu' un diplomatico da salotto che un collaudato guerriero? E l'ipotesi di chiusura dell'ambasciata italiana che tanto non serve a nulla?
In India infuria la campagna elettorale. La signora Sonia Ghandi si tiene alla larga dal caso dei due marines perche' italiana. Il governo indiano e' incazzato ai massimi livelli perche' la scoperta che per aggiudicarsi la fornitura di elicotteri la Finmeccanica aveva autorizzato il pagamento di cospicue mazzette, ha reso necessario tagliare teste di generali e giu' nella catena di comando.Insomma: e' garantito che agli indiani non gliene importa un fico della vicenda dei due marines che verranno giudicati secondo la legge di quel paese che e' molto suscettibile quando viene coinvolta la propria sovranita' .
Quanto poi a chiedere l'intervento persuasivo degli Stati Uniti e' roba da peracottari della politica e dell'informazione all'insegna del "quanto e' buono lei.".
Ci sono state nei mesi scorsi manifestazioni violente contro l'ambasciata americana a Delhi per il caso della console generale indiana di New York che aveva dichiarato il falso nei documenti che riguardavano il pagamento di una sua domestica. Ed e' stata rimandata a casa.
Se non fosse che nel mezzo di questa storia vi e' la sorte di due ottimi servitori dello stato, si sarebbe tentati di considerare questa vicenda un'ulteriore sceneggiata del tradizionale avanspettacolo italiano."
Ita dixit. Se qualcuno vorra' illuminarci sara' il benvenuto su questo blog.
(da GOI Newsletter) "Liberamuratoria e società civile", la rivista inglese "The Square" apre il dibattito rilanciando le tesi del Gran Maestro Gustavo Raffi Qual è il ruolo della Liberamuratoria? Che contributo può dare al mondo? La sua storia, i suoi valori sono noti ai profani? E i fratelli li conoscono? "The Square", la più celebre rivista inglese massonica, in un articolo dal titolo "Freemasons and Civil Society" (Liberi Muratori e Società Civile) che porta la firma prestigiosa di uno storico come John Belton, risponde a questi interrogativi che la massoneria si pone durante le fasi acute delle sue crisi identitarie ricorrenti, rilanciando le tesi del Gran Maestro Gustavo Raffi e riconoscendogli il merito di aver fatto comprendere ai fratelli l'importanza "di essere aperti, capaci di comunicare e informare per evitare il rischio che il messaggio massonico possa essere frainteso", di aver fatto riscoprire loro "l'orgoglio dell'appartenenza" e "di aver fatto prosperare il Grande Oriente" . Diversa è la situazione in Gran Bretagna. Qui, sottolinea Belton, la stagione d'oro della massoneria degli anni cinquanta è lontana. "Anche noi - è l'appello che rivolge - dovremmo fare un bilancio e dovremmo cercare di proporci e diventare un punto di riferimento per le generazioni più giovani e per la società civile in generale. Noi dovremmo capire che i principi e i fondamenti della Liberamuratoria, il mistero e l'esperienza sono qualcosa da ricercare, posseggono un loro prezioso valore". L'intuizione di Raffi è impressionante, dice Belton invitando a leggere le parole del Gran Maestro italiano, riportate in un editoriale pubblicato su Hiram n. 4 del 2012: "Se dobbiamo contribuire al benessere dell'umanità, non dobbiamo ritenerci al di fuori dell'umanità stessa o peggio al di sopra, come alcuni talora, in nome della supposta capacità esoterica e dei titoli altisonanti che ci siamo dati, possono supporre (...)"
La rissa
diplomatico-militare sull’Ucraina e la Crimea trova inattesi imitatori: per
esempio in Alaska. Migliaia di cittadini americani raccolgono firme sotto un
documento che chiede che la loro vasta terra venga “restituita alla Russia”. In
tre giorni pare abbiano sottoscritto in 17mila questa petizione “sediziosa” e
altre migliaia stanno facendo la “fila” in Internet. Ne occorrono centomila di
firme perché una petizione di secessione venga esaminata dal governo di
Washington.
Motivazione: ci
sono troppi neri il cui comportamento non piace ai figli e ai nipoti dei cercatori d’oro insediati nella terra del
ghiaccio e del petrolio sovrabbondante. Non è probabile che ottengano il loro fine, la tradizione e la
legislazione Usa sono dimostrabilmente ostiche. Basta pensare alla sedizione
del Sud di un secolo e mezzo fa: finì con quattro anni di guerra civile e
seicentomila morti. E ancor più improbabile che lo ottenganono gli alaskani:
gente eccentrica da eleggere governatore una Sarah Palin (un nome, a proposito,
che suona russo) e di candidarla alla vicepresidenza anche; si vantava di
“vedere la Russia” dalle finestre di casa. Tra l’Alaska e la Russia corre in un
certo punto un ruscelletto marino largo meno di due chilometri e i russi, lo
sappiamo, furono i primi a colonizzare quell’aspra terra artica che gli
sembrava una continuazione diretta della Siberia. La tennero per un po’, poi
uno zar dalle casseforti vuote si decise a venderla all’America, che aveva il
portafoglio pieno, a condizioni di favore.
Quella che si
ripropone oggi non è però una transazione commerciale, ma una parodia di quello
che sta accadendo in terre e mari più caldi climi di terre bagnate dal Mar Nero
e non dall’Artico. E il cattivo esempio trova altri imitatori.. Si sono già
candidati a un’analoga rissa Cina e i Giappone, accusandosi a vicenda di
volersi comportare da russi o da americani, mentre in Europa si addensano nubi
sulla Transnistria, una nazione temporaneamente indipendente dopo essere
appartenuta alla Russia, alla Romania, alla Turchia eccetera. E che conta meno
di duecentomila abitanti ma alle cui frontiere, secondo gli allarmisti di
professione o di dovere, si starebbero “concentrando le armate russe” pronte a
“sbarcare”. Operazione non facile dal momento che la Moldova, di cui la
Transnistria è parte, non dispone accessi al mare.
Il mondo,
insomma, è o appassionato alla questione o diviso. Lo si è visto anche nel voto
all’Onu sulla mozione di solidarietà verso l’Ucraina, che ha raccolto cento
“sì” ma anche un’ottantina fra “no” e astensioni, compresi membri “grossi”. Lascia
perplessi l’invito a rafforzarsi
militarmente da un America che si impegna a evitare dal canto suo
“passeggiatine belliche”, rivolto a Paesi alle prese con l’Austerity e con la
Spending Review e di tutto hanno voglia tranne che di aumentare il bilancio dei
giochi di guerra. Neanche “fredda” o commerciale. Lo stanno facendo. Senza dire
di no in faccia a Obama lo fanno capire in tanti modi. Soprattutto in Germania,
che dovrebbe essere due ex cancellieri,
Helmut Kohl e Helmut Schmidt; così come ha fatto in Italia Berlusconi in
termini anche più recisi. Più morbide le parole, più significativi la “musica”
e le omissioni in arrivo da Londra: il premier Cameron, normalmente un “falco”,
promette stavolta solidarietà ma consiglia prudenza: non può non tenere conto
che la Gran Bretagna è il principale “porto di sbarco” e di “villeggiatura” di
moltissimi fra gli “oligarchi” in arrivo da Mosca, quelli che fanno salire alle
stelle il prezzo delle case più eleganti e comprano giornali e squadre di
calcio. La Gran Bretagna, del resto, conta di portarli entr inferiore a quello
disponibile a Waterloo nel 1815. Perfino in Francia, che nei casi della Libia e
della Siria è alla testa dei “falchi”, ha cambiato tono: pare essersi resa
conto che Mosca non è Tripoli o Damasco. Dunque l’incitamento Usa, sintetizzato
da Kerry nell’impegno a “sguainare la spada fino all’elsa”, già “limitato”
dalla strategia di Obama: “Non ci pensiamo neanche a fare passeggiate militari
da quelle parti”. Condanne sì, proteste, iniziative bancarie, chicane valutarie.
Una “dose” che Putin dovrebbe potere “digerire” senza troppi dolori.
Intanto Obama
cambia discorso, se ne va in Arabia Saudita a parlare di affari e di petrolio.
Tanto che non sembra ricordarsi più di avere, poche settimane fa, disertato la
cerimonia dell’apertura dei giochi olimpici invernali a Sochi perché la Russia
tratta male gli omosessuali. L’Arabia Saudita è tutta un’altra cosa: si limita
ad applicare loro la pena di morte.
Barack
Evidente la commozione di Obama nell'incontro con il Pontefice. Gli anni passati a collaborare come consulente sociale con le parrocchie cattoliche , anche se lui e' un presbiteriano, hanno lasciato un segno indelebile nell'uomo piu' potente del mondo.
Renzi
I media italiani continuano a trattare da "ragazzo spazzola" il trentanovenne Presidente del Consiglio. A conferma che nel nostro amato Paese non vi e' alcun rispetto per le Istituzioni e chi le rappresenta pro tempore. Gli italiani non possono lamentarsi della casta politica perche' sono stati loro ad eleggerla. Avessero piu' buon senso non si troverebbero nella melma in cui sguazzano.
Papa Francesco
Cinquecento parlamentari sono stati costretti ad una levataccia per partecipare alla messa di Papa Francesco nel corso della quale il Pontefice si e' scagliato contro i corruttori. A leggere i giornali italiani si tratta di una categoria molto diffusa nello stivale. A qualsiasi livello.
Traffico e scontri alla romana
Roma blindata e appuntamenti saltati per la paura di spostarsi in una metropoli condizionata dalla presenza del Presidente Obama. Anche se molti tassisti hanno dichiarato che il traffico era sorprendentemente buono.
Ad un varco disattivato della zona blue, facendo un tentativo di retromarcia tocchiamo una Smart che si era infilata dietro di noi.
Constatiamo che la vetturetta ha il paraurti anteriore sfasciato sulla parte destra. La nostra auto a noleggio non presenta neanche un graffio. Il ragazzo alla guida della Smart non sembra particolarmente sconvolto. Tiro fuori i documenti della mia vettura, ma il giovane (appreso che si tratta di un'auto a noleggio e che sono straniero) dice di lasciare stare e se ne va. Chiaramente il danno riportato era stato causato in precedenza.
La Repubblica
Acquisto la copia della tanto strombazzata La Repubblica, nuovo formato. Impossibile leggere perche' hanno utilizzato un carattere corpo 8. Molto piu' leggibile il Corriere della Sera.
Consideriamo la nuova veste di La Repubblica come la pietra tombale del quotidiano su carta stampata. Gli editori italiani dovranno presto fare i conti con la loro insipienza manageriale. Affari loro e perdite di bilancio consistenti.
Crimine
Morto ammazzato con sette colpi di pistola vicino alla direzione dell'AMA. 40 anni e forse l'esecuzione e' stata fatta per ragioni di prostituzione. Il Messaggero pubblica le foto delle telecamere che dovrebbero segnalare comportamenti criminosi all'EUR intorno al Palasport e al Palazzo delle Esposizioni dove puttane e scambisti soggiornano a tutte le ore.
Soyouz
Mentre continua la polemica internazionale sulla Crimea si ha notizia che la Soyouz sta per agganciare la stazione spaziale dopo due giorni di ritardo dovuto a cause tecniche. A bordo due astronauti russi ed un americano.
When in Rome do as the Romans do...
Sette di sera. Con una coppia di amici cerchiamo di raggiungere dall'EUR il ristorante Lon Fon, il migliore tra i cinesi di Roma.
Traffico scatenato dopo la blindatura della citta' per la visita di Obama.
Macchine che si infilano da tutte le parti, slalom di motorini, maleducazione generalizzata, donne alla guida che sventolano il dito medio se provi a protestare.
Il mio anziano amico mi dice che a Roma biosgna guidare come i romani. Purtroppo noi siamo 'corrotti' da decenni di disciplina e educazione civica americana fatta rispettare a suon di 'law enfrocement', ovvero del semplice rispetto e applicazione della legge.
Dopo la bancarotta di tre anni fa il Dubai e' stato in pratica acquistato da Abu Dhabi. I famosi alberghi hanno cambiato nome e la citta' stato sta cercando di ritrovare un proprio 'appeal' per competere con l'altra capitale economico-finanziaria della penisola che e' stabilmente un punto di interesse globale.
Secondo il capo della polizia di Dubai, questa strana citta' sta ormai svolgendo un ruolo planetario come capitale del sesso a pagamento. Nonostante le proibizioni islamiche. Sono circa trecentomila le prostitute residenti nella citta', senza contare il flusso continuo di super escort che provengono da ogni parte di Europa e dalla Russia.
Nei giorni scorsi eravamo in un noto ristorante impegnati in una discussione in inglese con un conoscente. Al tavolo vicino al nostro due splendide ragazze, inguainate in jeans ginecologici, profonde scollature ascellari che lasciavano intravedere solidi pettorali.
Ad un certo punto ci ha colpito la loro conversazione che avveniva in perfetto romanesco. Delle due quella che sembrava essere la decisionista in materia esclama: "Aho! Ma gliel'hai detto che non e' gratis e che deve sganciare duemila euro a testa per il party con lui e gli amici?"
"Tutto OK- ha risposto la collega - Pagamento anticipato." E le due hanno continuato a mangiare di gusto un piatto di bucatini all'amatriciana cercando di scansare gli schizzi di sugo.
Sta emergendo solo la punta dell'iceberg, il grosso non è venuto ancora fuori.
Quali interessi, ovviamente in nero estero su estero, legano le grandi imprese a ben identificate aree politiche ? Se non si arriva al fondo del barile, non sarà mai possibile risollevarsi dal baratro in cui siamo stati condotti; deve emergere tutta la verità e su di essa ricostruire tutto ciò che è stato con la consapevolezza di farlo.
Finmeccanica è stata al centro della politica delle guerre dell'Occidente. con i governi liberisti l'Italia è diventata la seconda nazione al mondo quale produttrice ed esportatrice di armi nel mondo.
Coinvolta anche nella permuta, specialmente con Afghanistan., di pani di droga contro armi, ovviamente gestita dalla varie mafie che nell'affare hanno guadagnato due volte: con il traffico delle armi e con lo spaccio di droga. Ma nei traffici ci sono ben altre aziende a partecipazione statale, coinvolte nel malaffare sempre da parte dei governi liberisti, in nome della decantata libertà, dello Stato che lascia fare, del tutto-mercato, della globalizzazione dell'illecito, della corruzione sia nazionale che internazionale, come documentato per l'appalto dell'allargamento dello stretto di Panama. L'Italia, che avrebbe potuto essere una delle nazioni più ricche del mondo, è diventata la nazione che più di ogni altra fa arricchire la cerchia dei complici dei governi del malaffare, che li ha protetti e incoraggiati con leggi su misura, condoni,. sanatorie, scudi fiscali e distrazione, penalmente perseguibile, sulle grandi evasioni fiscali.
RAI, ENEL, ENI, Impregilo, Finmeccanica, oltre alle grandi banche, sono diventate un bancomat, con una password nota solo al cerchio magico dell'abuso di potere e al capitalismo d'assalto.-
Ora emerge anche l'arroganza della Casta che minaccia, se i loro stipendi dovessero essere ritoccati in nome di una giustizia sociale, fin ora mortificata.
Rosario Amico Roxas
Barack Obama in
orbita. È una definizione un po’ azzardata ma descrive l’impressione che si può
avere dal programma del suo periplo in corso: pochi giorni, tre continenti e
cento problemi, punti di interesse e di frizione in apparenza legati uno
all’altro come possono esserlo una visita al Papa, un’occhiata alle forniture
del petrolio saudita, un “vertice strategico” con l’Europa a proposito della
Crimea e un atto di presenza nei luoghi dove si è perso misteriosamente un
aereo malese. C’è dentro di tutto, ma tutte le “orbite” girano attorno a qualcosa
e questa è oggi la Russia
che si incarna in Vladimir Putin. È colpa del colorito neo zar del Cremlino. La
sua “offensiva” in Crimea – che è in realtà una controffensiva nel tentativo di
recuperare posizioni e prestigio perdute in Ucraina – sembra mobilitare l’Occidente,
spingerlo a una serie di iniziative-castigo, svariate come sostanza, intensità ed
entusiasmo. Nessuno si aspetta seriamente, per esempio, che l’intera comunità
europea sia intimamente pronta a una vasta operazione sanzionistica e anche gli
Stati Uniti, che conducono questa rappresaglia, stanno bene attenti – o almeno
lo fa Obama – a non varcare un’indefinita “linea rossa” che separa sanzioni e
rabbuffi e dispetti da un confronto militare. Anche perché il mondo reale continua
ad essere grande e svariato e quel che pare funzionare in un angolo può portare
risultati negativi in altri.
Per esempio in
quello che si usa definire “grande Medio Oriente” e che va dalle spiagge del
Mediterraneo alle aspre vette afghane. Cominciando da quello che è stato per
tre anni (fino all’emergere della piazza di Kiev) e che in realtà tuttora è il
punto focale di una riedizione della Guerra Fredda: la
Siria. La polemica tra la
Casa Bianca e il Cremlino non ha finora
avuto ripercussioni a Damasco . Il regime di Assad continua la sua
controffensiva militare e politica e la Russia continua a sostenerlo in tutti i modi,
militare, economico e diplomatico. I siriani sono grati a Putin per avere inventato
quella formula che all’ultimo momento ha evitato un attacco militare Usa: lo
smantellamento dei depositi di gas chimici. Sui muri di Damasco si leggono
ancora manifesti dal titolo “Grazie Russia”, a Ginevra e in altre sedi si
continua a trattare, l’opposizione armata appare sempre più indebolita e
certamente è divisa e da Washington non arrivano iniezioni di fiducia.
In casa del vicino
accanto, l’Iran, la collaborazione diplomatica tra Mosca e Washington appare
addirittura intatta e si nota perfino qualche segno di “distensione” da parte
di Teheran e verso Teheran: tutto come prima. Le novità vengono semmai
dall’Afghanistan e sono pittoresche, indicative e di segno opposto ai segnali
che ci pervengono da Kiev e da Sinferopoli. Da Kabul gli americani se ne stanno
andando come previsto. Meno automatico era nelle previsioni che al loro posto
stiano ritornando i russi, quelli costretti a sgombrare alla fine degli anni
Novanta. Il presidente Karzai, che ormai con gli americani non si saluta più, per
il capodanno afghano ha ricevuto un caloroso messaggio di auguri firmato Putin,
che parla di “amicizia e collaborazione” fra i due Paesi. Ed è accompagnato dall’intensificazione
della penetrazione economica russa: è stato appena firmato un trattato di
collaborazione, gli studenti all’università di Kabul riprendono a studiare il
russo al posto dell’inglese, i soldati imbracciano di nuovo i kalashnikov. Il
nemico, dopotutto, è sempre quello: il fondamentalismo islamico combattuto
negli anni Ottanta dall’allora Unione Sovietica, poi dagli Stati Uniti e dai
loro alleati con risultati deludenti per entrambi.
Dicono che la Storia non si ripeta mai,
ma in questo caso ci si va molto vicini. E infine sullo sfondo è sempre
prominente, anche se come al solito in tempi lunghi, il rapporto nucleare fra
le due superpotenze rivali del passato, legate oggi da interessi davvero comuni
e che le crisi del Mar Nero non intaccano. Continua la cooperazione negli
sforzi per tenere i materiali nucleari lontani dalle mani dei terroristi e per tenere
bassi gli arsenali nucleari americano e russo. Poche ore fa è arrivata a San
Francisco una delegazione militare da Mosca per una delle ispezioni di routine
dell’arsenale nucleare Usa ai termini dell’ultimo Trattato Start firmato nel
2010. Cioè fra Obama e Putin. Come se nel frattempo non fosse successo niente.
(Dal New York Times) CHICAGO — In a meeting room under Holy Name Cathedral, a rapt group of black Roman Catholics l istened as Barack Obama, a 25-year-old community organizer, trained them to lobby their fellow delegates to a national congress in Washington on issues like empowering lay leaders and attracting more believers.
“He so quickly got us,” said Andrew Lyke, a participant
in the meeting who is now the director of the Chicago
Archdiocese’s Office for Black Catholics. The group
succeeded in inserting its priorities into the congress’s
plan for churches, Mr. Lyke said, and “Barack Obama
was key in helping us do that.”
By the time of that session in the spring of 1987,
Mr. Obama — himself not Catholic — was already
well known in Chicago’s black Catholic circles. He
had arrived two years earlier to fill an organizing
position paid for by a church grant, and had spent
his first months here surrounded by Catholic pastors
and congregations. In this often overlooked period of
the president’s life, he had a desk in a South Side parish
and became steeped in the social justice wing of the
church, which played a powerful role in his political
formation.
This Thursday, Mr. Obama
will meet with Pope Francis
at the Vatican after a three-
decade divergence with the
church. By the late 1980s,
the Catholic hierarchy had
taken a conservative turn
that de-emphasized social
engagement and elevated
the culture wars that would
eventually cast Mr. Obama
as an abortion-supporting
enemy. Mr. Obama, who went
on to find his own faith with
the Rev. Jeremiah A. Wright
Jr.’s Trinity United Church of
Christ, drifted from his youthful, church-backed activism to
become a pragmatic politician
and the president with a terrorist “kill list.” The meeting this
week is a potential point of confluence.
A White House accustomed to archbishop antagonists
hopes the president will find a strategic ally and kindred
spirit in a pope who preaches a gospel of social justice and inclusion. Mr. Obama’s old friends in the priesthood
pray that Francis will discover a president freed from
concerns about re-election and willing to rededicate
himself to the vulnerable.
But the Vatican — aware that Mr. Obama has far more
to gain from the encounter than the pope does, and
wary of being used for American political consumption
— warns that this will hardly be like the 1982 meeting
at which President Ronald Reagan and Pope John Paul II
agreed to fight Communism in Eastern Europe.
“We’re not in the old days of the great alliance,” said
a senior Vatican official who was granted anonymity to
speak frankly about the mind-set inside the Holy See.
While Mr. Obama’s early work with the church is “not
on the radar screen,” the official said, his recent
arguments with American bishops over issues of
religious freedom are: Catholic leaders have objected to a provision in the administration’s health care law that requires employers to cover contraception costs, and have sharply questioned the morality of the administration’s use of drones to fight terrorism.
As in many reunions, expectations, and the possibility for disappointment, run high.
In 1967, as the modernizing changes of the Second Vatican Council began to transform the Catholic world, Ann Dunham, Mr. Obama’s mother, took her chubby 6-year-old son occasionally to Mass and enrolled him in a new Catholic elementary school in Jakarta, Indonesia, called Santo Fransiskus Asisi. At school, the future president began and ended his days with prayer. At home, his mother read him the Bible with an
anthropologist’s eye.
Pious he was not. “When it came time to pray,
I would pretend to close my eyes, then peek
around the room,” Mr. Obama wrote in his
memoir “Dreams From My Father.” “Nothing
happened. No angels descended. Just a parched
old nun and 30 brown children, muttering words.”
In 1969, Mr. Obama transferred to a more exclusive,
state-run school with a mosque, but a development
in the United States would have a greater impact
on his future career. American Catholic bishops
responded to the call of the Second Vatican Council
to focus on the poor by creating what is now known
as the Catholic Campaign for Human Development,
an antipoverty and social justice program that became
one of the country’s most influential supporters of
grass-roots groups.
By the early 1980s, when Mr. Obama was an
undergraduate at Columbia University, the campaign
was financing a project to help neighborhoods after
the collapse of the steel mills near Chicago. The
program’s leaders, eager to expand beyond Catholic
parishes to the black Protestant churches where more
of the affected community worshiped, sought an
African-American for the task. In 1985, they found
one in Mr. Obama, a fledgling community organizer
in New York who answered a want ad for a job with
the Developing Communities Project. The faith-based
program aimed to unify South Side residents against
unsafe streets, poor living conditions and political
neglect. Mr. Obama’s salary was less than $10,000 a year.
The future president arrived
in Chicago with little
knowledge of Catholicism
other than the Graham
Greene novels and
“Confessions” of St. Augustine
he had read during a period
of spiritual exploration at
Columbia. But he fit seamlessly
into a 1980s Catholic cityscape
forged by the spirit of Vatican II,
the influence of liberation theology and the progressivism of Cardinal Joseph L. Bernardin, the archbishop of Chicago,
who called for a “consistent ethic of life” that wove life
and social justice into a “seamless garment.”
On one of his first days on the job, Mr. Obama heard
Cardinal Bernardin speak at an economic development
meeting. He felt like a Catholic novice there, he wrote
in his memoir, and later decided “not to ask what a
catechism was.” But he was a quick study.
“He had to do a power analysis of each Catholic church,
” said one of his mentors at the time, Gregory Galluzzo,
a former Jesuit priest and disciple of the organizer Saul
Alinsky. Mr. Obama, Mr. Galluzzo said, soon understood
the chain of command and who had influence in
individual parishes.
Mr. Obama had a small office with two cloudy glass-
block windows on the ground floor of Holy Rosary,
a handsome red brick parish on the South Side, where
he would pop down the hall to the office of the Rev.
William Stenzel, raise a phantom cigarette to his lips
and ask, “Want to go out for lunch?” Besides sneaking
smoke breaks with the priest on the roof, Mr. Obama
listened to him during Mass. “He was on an exposure
curve to organized religion,” Father Stenzel said.
The future president’s education included evangelizing.
Mr. Obama often plotted strategy with the recent
Catholic convert who had hired him, Gerald Kellman,
about how to bring people into the program and closer
to the church. The effort to fill the pews “was what
Bernardin really bought into,” Mr. Kellman said.
To expand congregations as well as the reach of his organizing program, Mr. Obama went to Holy Ghost Catholic Church in South Holland, Ill., to ask Wilton D. Gregory, an African-American bishop and a rising star in the hierarchy, for a grant for operating costs. Archbishop Gregory, who now leads the Archdiocese of Atlanta, recalled Mr. Obama as
a persuasive man who “wanted to engage the
people of the neighborhood.” He recommended
that Cardinal Bernardin release the funds.
As the months went on, Mr. Obama became a familiar
face in South Side black parishes. At Holy Angels Church, considered a center of black Catholic life, he talked to
the pastor and the pastor’s adopted son about finding
families willing to adopt troubled children. At Our
Lady of the Gardens, he attended peace and black
history Masses and conferred with the Rev. Dominic
Carmon on programs to battle unemployment and
violence. At the neo-Gothic St. Sabina, he struck up
a friendship with the Rev. Michael L. Pfleger, the
firebrand white pastor of one of the city’s largest black
parishes. The two would huddle in a back room and
commiserate about the liquor stores and payday loan
businesses in the neighborhood.
But even as Mr. Obama effectively proselytized for
the church and its role in improving the community,
and even as he opened meetings in the backs of
churches with the Lord’s Prayer and showed a
comfort with faith that put the people he hoped
to organize at ease, Catholic doctrine did not tempt
him. He was not baptized Catholic, priests said.
But it was amid the trappings of Catholicism,
according to his fellow organizers, that the future
president began to express a spiritual thirst.
As Mr. Obama helped expand the program from
Catholic parishes to megachurches and Protestant
congregations, he felt that need slaked by the
prevailing black liberation theology, inspired by
the civil rights movement and preached by African-
American ministers like Mr. Wright of Trinity. The
notion that Jesus delivered salvation to communities
that expressed faith through good deeds suited Mr.
Obama’s instincts — and perhaps his interests.
For an ambitious black politician, Mr. Galluzzo said,
“it was not politically advantageous to be in a Catholic
church.”
Mr. Obama nevertheless
maintained his Catholic
connections, so much so
that when he turned up
in the basement of the
Holy Name complex in
1987, “there was a need
to clarify” that he was not
a member of the flock,
said the Rev. David Jones,
who was at the meeting.
And some members still
tried to draw him in, in more
ways than one.
“He was a man of integrity, very much to my disappointment,
” joked Cynthia Norris, then the director of the Chicago Archdiocese’s black Catholics office, who found the
young Mr. Obama appealing. The future president,
who was dating another woman, did turn to Ms. Norris
for a Harvard Law School recommendation, and kept in touch during a trip to Europe in 1988.
“I wander around Paris, the most beautiful, alluring,
maddening city I’ve ever seen; one is tempted to chuck
the whole organizing/political business and be a painter”
on the banks of the Seine, Mr. Obama scribbled to Ms.
Norris, along with “Love, Barack,” on one side of a postcard. On the other was a picture of the Cathedral of Notre-Dame.
A Partnership Falters
Mr. Obama entered Harvard in 1988, the same year he
was baptized at Trinity, the power church of Chicago’s
black professional class. Trinity served Mr. Obama well
through his dizzying political ascent, which coincided
with a period in which black Catholic churches in Chicago
closed and the hierarchy shifted away from the progressive
social engagement that had characterized Mr. Obama’s
early years here.
In 1997, the year Mr. Obama was sworn in as an Illinois state senator, Cardinal Francis George succeeded Cardinal Bernardin as archbishop of Chicago. One of the church’s leading conservative intellectuals, called “Francis the Corrector” by local liberal priests, Cardinal George was emblematic of the bishops installed by John Paul II and his successor, Benedict XVI. Some of them looked with skepticism at the social justice
wing that had financed Mr. Obama’s organizing efforts,
and later sought to block his election as president by
suggesting that Catholics could not in good conscience
vote for a candidate who supported abortion rights.
Mr. Obama still won the Catholic vote in 2008. In his
campaign, he had held out the goal of finding common
ground between supporters and opponents of abortion
rights, chiefly by reducing unintended pregnancies and
increasing adoptions. Cardinal George quickly dashed
those hopes. “The common good can never be adequately incarnated in any society when those waiting to be born
can be legally killed at choice,” he said in November
2008 in his opening address as president of the
United States Conference of Catholic Bishops.
Mr. Obama, seeking to avoid confrontation with the
church, invited Cardinal George to the White House
in March 2009; said at a news conference that April
that abortion rights were “not my highest legislative
priority”; and told graduates at the University of Notre
Dame in May, after some initial boos from the crowd,
that Cardinal Bernardin had touched “my heart and
mind.” He recalled his years in Chicago’s Catholic
parishes and said that after branching out to work
with other Christian denominations, “I found myself
drawn not just to the work with the church; I was drawn
to be in the church.”
Two months later, speaking to reporters from Catholic
publications, he said again that the Campaign for Human Development and Cardinal Bernardin had inspired him.
“I think that there have been times over the last decade
or two where that more holistic tradition feels like it’s
gotten buried under the abortion debate,” he said.
Church leaders were unimpressed. A week after his
session with Catholic reporters, Mr. Obama met
with Benedict, who pointedly offered him a Vatican
document on bioethics that condemned abortion and
stem cell research. The relationship deteriorated further
during Mr. Obama’s push for health care reform,
specifically the provision on contraception, which
will be argued before the Supreme Court on Tuesday.
Still, Mr. Obama had not lost all his friends in the
church. As the president’s relations with Catholic
leaders reached their nadir, Father Stenzel, Mr.
Obama’s old smoke-break friend, visited the White
House. As they walked into the Oval Office, Mr. Obama
joked to his staff that the priest had given him his
first office in Chicago. Father Stenzel reminded
him that his old surroundings were far humbler:
“The office I gave you had two rows of glass-block
windows!”
Pope Francis’ Impression
Mr. Obama’s parish days seemed far behind him
when he won re-election in 2012 with a slimmer
margin of Catholic votes. Not only did Catholic
conservatives view him as a secularist forcing them
to pay for contraceptives, but some of his old allies
in the church’s left wing criticized his use of
drones and lack of emphasis on the poor.
But the election of Pope Francis last March seemed
to breathe new life into the Catholic Church and,
potentially, into the relationship between Mr. Obama
and the institution that gave him his start. While
far from an ideological progressive, Francis does
sometimes appear cloaked in Cardinal Bernardin’s
“seamless garment.” His de-emphasis of issues like abortion and same-sex marriage and his championing
of the poor and vulnerable — articulated in his mission
statement, “The Joy of the Gospel” — have impressed
a second-term president who argues that income inequality undermines human dignity.
“Whether you call that the ‘seamless garment’ or
‘the joy of the Gospel’ or what, I’ve said to the president I consider that a pretty Catholic way of looking at the world,” said Denis McDonough, the White House chief of staff, who is Roman Catholic. Mr. McDonough added that the community-organizer-turned-president had expressed admiration to him about “how important it is for the Holy Father to be so in the community.”
Last month, Catholic activists made their case
for social justice on Capitol Hill. Afterward, relaxing
over beers and a buffet in the Russell Senate Office
Building, they discussed whether Cardinal George,
who is retiring as archbishop of Chicago, would
be replaced by Archbishop Gregory, who helped
secure
Mr. Obama’s church grant application in the 1980s.
Among them was Mr. Lyke, the man who had received
coaching from Mr. Obama years earlier in the basement
of Holy Name Cathedral. He characterized Francis and
Mr. Obama as a match made in heaven.
Mr. Lyke’s view is not universal. Vatican officials have
made clear Mr. Obama will not get special treatment,
and leaders of the Catholic Campaign for Human
Development, also gathered in the Russell Building, saw
the coming papal audience as a chance for Mr. Obama to
return to the church’s social justice values, not the other way around.
Dylan Corbett, one of the Campaign for Human Development leaders, said the president was “welcome to the
conversation” that the pope was driving about income
inequality and poverty. He added with a grin, “We’re happy
to have him back, actually.”
Mentana ha offerto a Beppe Grillo un'incredibile opportunita' di aprire la propria campagna elettorale per le europee.
L'intervista alla quale si e' sottoposto il frenetico capopolo genovese nelle parole di presentazione del direttore del TG7 avrebbe dovuto essere considerata come uno scoop spiazzante tutti gli altri big del giornalismo nostrano.
A noi invece come spettatori ordinari ha fatto un po' pena.
Non ci sono piaciuti gli sghignazzi che i due si sono scambiati e che denotavano un'intesa preliminare di fondo, del resto confermata, con un certo imbarazzo del giornalista, dalla bonomia con la quale il capo del M5s ha voluto escludere la 7 dal branco dei media oggetto dei suoi strali quotidiani.
Insopportabile la frase di Grillo a Mentana: : "Posso chiamarla Enrico?".
Mentana e' un giornalista di grande esperienza. Ci saremmo aspettati da lui una serie di domande ficcanti e incalzanti mentre quelle poste nel confronto avevano il tono del "Abbia pazienza che adesso le devo porre una delle solite questioni."
Quanto a Beppe Grillo la sua performance e' stata ampiamente al di sotto della sua notorieta' dimostrando che un conto e' arringare la folla dal palco di una piazza urlando improperi e parolacce, ed un conto e' gestire una intervista rinunciando ai toni virulenti.
Grillo ha cercato di sommergere l'intervistatore con tonnellate di parole molte delle quali spesso risultavano incomprensibili perche' prive di un filo logico.
Negli Stati Uniti il giornalista che intervista un personaggio pubblico lo fa sapendo che rappresenta lo spettatore e che ogni domanda deve essere un tentativo di fare breccia nella riluttanza dell'intervistato.
Lo spettacolo offerto dai due sul canale della Sette puzzava lontano un miglio di inciucio.
Forse ci sbagliamo e forse non comprendiamo che in Italia al di la' della scena quelle che valgono sono le calde relazioni personali.
Ucraina, Crimea,
sanzioni economiche. E ora Siria, Libia, domani forse Iran. Se non è l’alba
della seconda Guerra Fredda, questo Sole nero sorge davvero in fretta. Sono in
molti a pensarlo ed è comprensibile, inevitabile se ci si attiene alla
identificazione tradizionale fra la Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Unione
Sovietica. Causa ed effetto, il crollo dovuto alla sconfitta; e ora magari il
bis. Interpretazione diffusa e alimentata dagli scambi polemici fra Mosca e
Washington. Non sono però proprio tutti a vederla così, almeno in America. Una
interpretazione alternativa è fornita, oltre che Henry Kissinger, da uno dei massimi
esperti e testimoni dall’evento di venti anni fa, Jack F. Matlock, che li visse
nel ruolo privilegiato di ambasciatore a Mosca negli anni in cui “scoppiò” la
Distensione. Egli nega che il mondo sia condannato a ricadere in una Guerra
Fredda. Sostiene invece che l’attuale crisi sia basata soprattutto su una serie
di equivoci, fraintendimenti, forzature verbali, dispetti. E soprattutto nega
che la fine della Guerra Fredda coincida con il dissolvimento dell’Urss. Furono,
insiste lui che c’era, eventi separati. E i leaders di allora delle
Superpotenze rivali, lo capirono presto
e meglio dei successori: Reagan meglio di Obama, Gorbaciov meglio di Putin,
Bush padre meglio di Bush figlio. La Guerra Fredda non finì con la catastrofe
dell’Urss: fu il risultato di una serie di negoziati condotti e conclusi
nell’interesse reciproco. Il “rigelo” attuale sarebbe dunque soprattutto il
risultato di interpretazioni successive erronee o almeno esagerate.
Matlock non è neppure
convinto che l’evento decisivo sia stato l’abbattimento del Muro di Berlino
(anche quella fu una conseguenza) bensì il vertice a Malta del dicembre 1989 al
termine del quale il presidente Usa annunciò che non c’erano più le basi
ideologiche della Guerra Fredda e che i due Paesi non si consideravano più
nemici né avversari. Lavoravano invece assieme e ne uscirono la fine della
corsa agli armamenti, il bando alle armi chimiche, la riduzione degli arsenali
nucleari, la caduta della cortina di ferro su tutta l’Europa, la liberazione
dei “satelliti”. “La fine della Guerra Fredda – disse Gorbaciov – è una
vittoria per entrambi”. Fu subito dopo che l’Unione Sovietica andò in pezzi ma
per cause interne, non per pressioni americane. Al contrario il governo Usa
dedicò molta attenzione a evitare un eccessivo trionfalismo. Fu proprio su una
piazza di Kiev che nell’agosto 1991 che Bush (padre) rivolse alla folla che lo
festeggiava un monito contro il “nazionalismo suicida”.
L’Urss cominciò a
decomporsi pochi giorni dopo, ma per diversi anni, gli Stati Uniti non
cercarono di trarre profitto strategico della debolezza e del caos politico a
Mosca. Gli screzi cominciarono più tardi, con l’offerta di Bush figlio alla
Polonia in testa di sistemi missilistici da installare nei pressi del confine
russo. Putin reagì rabbiosamente. Obama tentò una ricucitura e cancellò quel
progetto, ma sopravvennero nuove tensioni in Libia, in Siria. La “protezione”
della Russia alla “spia dissidente” Snowden, la campagna del Cremlino contro
gli omosessuali, che portò al rifiuto di Obama di presenziare all’inaugurazione
delle Olimpiadi ai Sochi. Infine l’ Ucraina e la Crimea. Tensioni che non sono
ancora Guerra Fredda ma le assomigliano e contengono pericoli per tutti. Per
l’Ucraina, per il Medio Oriente, per l’Europa, per la Russia. per l’America. E
suggeriscono nostalgie. Riassunte in una foto di un quarto di secolo fa
ripubblicata oggi in America: Ronald Reagan sulla piazza Rossa in compagnia di
Gorbaciov, che stringe la mano a un bambino alle cui spalle c’è un giovanotto
biondo dai lineamenti oggi fin troppo riconoscibili: un agente del Kgb di nome
Vladimir Putin.