Alberto
Pasolini Zanelli
Ucraina, Crimea,
sanzioni economiche. E ora Siria, Libia, domani forse Iran. Se non è l’alba
della seconda Guerra Fredda, questo Sole nero sorge davvero in fretta. Sono in
molti a pensarlo ed è comprensibile, inevitabile se ci si attiene alla
identificazione tradizionale fra la Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Unione
Sovietica. Causa ed effetto, il crollo dovuto alla sconfitta; e ora magari il
bis. Interpretazione diffusa e alimentata dagli scambi polemici fra Mosca e
Washington. Non sono però proprio tutti a vederla così, almeno in America. Una
interpretazione alternativa è fornita, oltre che Henry Kissinger, da uno dei massimi
esperti e testimoni dall’evento di venti anni fa, Jack F. Matlock, che li visse
nel ruolo privilegiato di ambasciatore a Mosca negli anni in cui “scoppiò” la
Distensione. Egli nega che il mondo sia condannato a ricadere in una Guerra
Fredda. Sostiene invece che l’attuale crisi sia basata soprattutto su una serie
di equivoci, fraintendimenti, forzature verbali, dispetti. E soprattutto nega
che la fine della Guerra Fredda coincida con il dissolvimento dell’Urss. Furono,
insiste lui che c’era, eventi separati. E i leaders di allora delle
Superpotenze rivali, lo capirono presto
e meglio dei successori: Reagan meglio di Obama, Gorbaciov meglio di Putin,
Bush padre meglio di Bush figlio. La Guerra Fredda non finì con la catastrofe
dell’Urss: fu il risultato di una serie di negoziati condotti e conclusi
nell’interesse reciproco. Il “rigelo” attuale sarebbe dunque soprattutto il
risultato di interpretazioni successive erronee o almeno esagerate.
Matlock non è neppure
convinto che l’evento decisivo sia stato l’abbattimento del Muro di Berlino
(anche quella fu una conseguenza) bensì il vertice a Malta del dicembre 1989 al
termine del quale il presidente Usa annunciò che non c’erano più le basi
ideologiche della Guerra Fredda e che i due Paesi non si consideravano più
nemici né avversari. Lavoravano invece assieme e ne uscirono la fine della
corsa agli armamenti, il bando alle armi chimiche, la riduzione degli arsenali
nucleari, la caduta della cortina di ferro su tutta l’Europa, la liberazione
dei “satelliti”. “La fine della Guerra Fredda – disse Gorbaciov – è una
vittoria per entrambi”. Fu subito dopo che l’Unione Sovietica andò in pezzi ma
per cause interne, non per pressioni americane. Al contrario il governo Usa
dedicò molta attenzione a evitare un eccessivo trionfalismo. Fu proprio su una
piazza di Kiev che nell’agosto 1991 che Bush (padre) rivolse alla folla che lo
festeggiava un monito contro il “nazionalismo suicida”.
L’Urss cominciò a
decomporsi pochi giorni dopo, ma per diversi anni, gli Stati Uniti non
cercarono di trarre profitto strategico della debolezza e del caos politico a
Mosca. Gli screzi cominciarono più tardi, con l’offerta di Bush figlio alla
Polonia in testa di sistemi missilistici da installare nei pressi del confine
russo. Putin reagì rabbiosamente. Obama tentò una ricucitura e cancellò quel
progetto, ma sopravvennero nuove tensioni in Libia, in Siria. La “protezione”
della Russia alla “spia dissidente” Snowden, la campagna del Cremlino contro
gli omosessuali, che portò al rifiuto di Obama di presenziare all’inaugurazione
delle Olimpiadi ai Sochi. Infine l’ Ucraina e la Crimea. Tensioni che non sono
ancora Guerra Fredda ma le assomigliano e contengono pericoli per tutti. Per
l’Ucraina, per il Medio Oriente, per l’Europa, per la Russia. per l’America. E
suggeriscono nostalgie. Riassunte in una foto di un quarto di secolo fa
ripubblicata oggi in America: Ronald Reagan sulla piazza Rossa in compagnia di
Gorbaciov, che stringe la mano a un bambino alle cui spalle c’è un giovanotto
biondo dai lineamenti oggi fin troppo riconoscibili: un agente del Kgb di nome
Vladimir Putin.