Alberto Pasolini Zanelli
Ci sono gli
ucraini, i russi, i tartari. Più gli americani, i francesi, gli inglesi, i
tedeschi, i polacchi. La crisi nata a Kiev e che si è acutizzata in Crimea ha
molti padri, ma un solo “ritratto”, almeno ufficiale. Mezzo mondo la battezza con
un nome, insolito che simboleggia la crisi del dopoguerra Fredda, Vladimir
Putin: la Russia ,
ovvero la caricatura della Russia. Scivoliamo un po’ tutti nella facile
tentazione di chiamarlo Zar, anche perché è difficile trovargli un progenitore
politico più adatto. Ci hanno provato con Stalin, ma non attacca. Gorbaciov era
ed è troppo complesso. Boris Eltsin troppo accomodante, “liberale” e stanco. In
tutti i sensi, a cominciare una volta tanto per uno statista, dal fisico. Egli
irraggia vitalità. È freneticamente macho. Cavalca senza sella, ha meritato una
cintura nera di judo, ha guidato un’auto Formula Uno, si misura con le gang dei
motociclisti, grosse cilindrate: ci è andato anche fino in Ucraina, in tempi
più tranquilli. Pattina con quelli delle squadre di hockey, ha sciato in tutta
l’Europa, compresa l’Austria nel momento in cui gli altri Paesi boicottavano le
sue piste perché a Vienna c’era un governo troppo di destra e poi nel Caucaso.
Fa pesca d’alto mare come un personaggio di Hemingway, solo che le balene le
prende di mira con l’arco e le frecce. Un paio di volte si è tuffato in mare
alla ricerca di ancore archeologiche sul fondo. A 61 anni, da poco divorziato,
ha una relazione con, naturalmente, una ginnasta così flessibile che sa dribblare
con la testa un pallone da football.
Ci sa fare anche
con le armi: era capo del Kgb a Dresda il giorno in cui crollò il regime comunista
nella Germania Orientale e una folla festante invase e devastò la sede della
Stasi e minacciò di infilarsi anche nel suo ufficio. Vladimir Putin indossò i
panni di James Bond: uscì solo con la pistola in mano e disse alla gente: “Ue’,
qui dentro è Urss”. L’Urss morì due anni dopo, il Kgb fu sciolto, Putin tornò a
casa disoccupato, pochi mesi dopo gli trovarono un lavoro come vicerettore
dell’Università dell’allora Leningrado, poi entrò nella giunta comunale e
collaborò a ripristinarne il nome di Sanpietroburgo e a far costruire, proprio
di fronte al vecchio ufficio della polizia segreta in via Robespierre un monumento
alle vittime del Terrore.
Non ha cambiato
carattere, continua ad essere scomodo e inquietante, soprattutto agli occhi di
Washington, dove lo vedono come il perturbatore massimo della pax americana e che solo a sentirlo
nominare sentono rinascere quel vecchio prurito della Guerra Fredda. Con
qualche eccezione: anche laggiù c’è qualcuno che lo ama, gente di estrema
destra come Pat Buchanan, che ai tempi di Reagan era “capo delle comunicazioni”
della Casa Bianca e lo considera un “fratello” nella lotta “per la difesa dei
valori cristiani che costituiscono la base della civiltà occidentale”. Buchanan
è arrivato a definire Putin “uno di noi”, un leader della Destra Morale. Il
resto del mondo lo ricorda nei panni del Kgb e lo sospetta per questo di
nostalgie comuniste. Molto probabilmente a torto: lo ha spiegato lui in una intervista
cinica e probabilmente veritiera: “Nostalgico dell’Urss? Chi non la prova è
senza cuore, chi la sente è senza cervello”. Se riconosce un eroe nel passato
della Russia questi è uno Zar, Pietro il Grande, l’unico personaggio celebrato
nel memorabile spettacolo inaugurale delle Olimpiadi di Sochi. Pietro il Grande
tirò fuori la Russia ,
tre secoli fa, dal medioevo e costruì davvero Sanpietroburgo, finestra
sull’Occidente. La città di Putin, che quando nacque lui si chiamava,
naturalmente, Leningrado. Contatti di famiglia con l’Unione Sovietica? Sì: uno
dei suoi nonni fece il cuoco per Lenin. Niente di male, anche il nonno nero di
Barack Obama preparava i pasti per gli ufficiali inglesi al tempo dell’Impero
delle Indie.
Se una cosa Putin
certamente è, è nazionalista, orgogliosamente tale, nostalgico della grande
Russia, senza altri aggettivi e ideologie. Ha definito una volta “la peggiore
catastrofe” la disintegrazione dell’Unione Sovietica, ma perché essa coincise
con il culmine della potenza russa. Per questo il “suo” esercito ha conservato
la bandiera rossa con la falce e il martello, perché era quella che i vincitori
piantarono sulle macerie di Berlino nel 1945. La Marina russa, però ha la
bandiera disegnata da Pietro il Grande e sul palazzo presidenziale nel
Cremlino, dove Putin abita, sventola un vessillo con l’aquila zarista. E l’inno
nazionale è tornato quello dei tempi di Lenin e di Stalin, solo con un testo
completamente nuovo e ideologicamente opposto, pieno di riferimenti alla Patria
e a Dio. Chi va contro i comandamenti lui lo definisce pari pari “servo di
Satana”.
pasolini.zanelli@gmail.com