Alberto
Pasolini Zanelli
Non tutte le
notizie che arrivano dalla Libia sono precise e sicure. Non è confermato, ad
esempio, che una petroliera carica di greggio sia in fiamme dopo essere stata
presa a cannonate da una nave da guerra al largo di Bengasi, né che una
battaglia terrestre sia in corso in conseguenza di un’offensiva di “milizie”
partite da Misurata per attaccare Bengasi. Quello che si sa di certo è però più
che sufficiente per farsi un’idea del caos che regna in Libia. Truppe
separatiste hanno fatto il pieno di greggio a una petroliera che batte bandiera
nordcoreana ma che potrebbe essere una nave pirata senza nazionalità e lo ha
fatto nonostante precisi, recisi e minacciosi veti del governo di Tripoli. E
che, di conseguenza, il primo ministro libico è stato deposto da un voto della
Camera, ha fatto immediatamente le valigie ed è scappato in Germania.
Sono solo
episodi di una marcia verso il caos in cui il Paese è impegnato fin
dall’indomani della defenestrazione e uccisione di Gheddafi, salutata come una
“liberazione” non solo dai ribelli ma anche dai governi di una vasta alleanza
occidentale, che vi hanno visto una felice continuazione della promettente
ondata “democratica” che ancora va sotto il nome di Primavera Araba. Le notizie
ufficiali dalla ex colonia italiana sono che il posto del dimissionario Ali
Zeidan è stato preso da Abdullah al Thinni, che deterrà il potere per due
settimane, in attesa che si trovi qualcun altro disposto a servire più a lungo.
Ma non è solo il
premier che manca a Tripoli. Il dicastero dell’Interno, ad esempio, è vacante
da lunghi mesi. Si parla di nuove elezioni quasi immediate, ma andrebbe
precisato che più ci si appella alle urne meno si scomodano per andarci.
All’ultima consultazione ha partecipato solo un quinto dei cittadini che si
erano iscritti nei registri elettorali, che già erano un terzo del totale. I
libici sanno che la partita si gioca altrove e con altri metodi. Dal giorno
della cattura ed esecuzione di Gheddafi, violenze, uccisioni, scontri tribali e
altre gesta di guerra civile hanno causato quasi duemila morti. I primi erano
guardie e “collaborazionisti” in una resa di conti che purtroppo spesso
accompagna le “liberazioni”; ma ancor di più sono state le vittime delle faide
fra i “liberatori”, che fin dall’inizio erano divisi e rivali. Una “primavera
di sangue” che ha coinciso con la disgregazione dell’ordine pubblico, un po’
ovunque ma soprattutto a Bengasi, luogo in cui la rivoluzione è nata e da cui
ha prevalso. Negli ultimi due anni vi sono stati assassinati oltre cento esponenti
politici, militari, magistrati e semplici attivisti. Con l’aggiunta, non
dimenticata a Washington, dell’ambasciatore americano Christopher Stevens e di
tre suoi collaboratori assassinati da una folla che aveva assaltato la sede
diplomatica. Stevens era noto per avere prestato tutto l’aiuto possibile alla
“rivoluzione democratica”. La misura del disordine pubblico lo ha dato, nelle
ultime ore, la risposta del capo della fazione dominante in Bengasi, comandante
militare della città: “Non ce ne importa niente di quel che dice il governo.
Che facciano quello che vogliono”. E che possano, che si riduce poi allo
sguainare rumorosamente una sciabola da un fodero arrugginito e vuoto.
Che questo
ultimo incidente sia avvenuto a proposito del petrolio è indicativo e
particolarmente grave, in quanto il greggio è l’unico oggetto di esportazione
della Libia, la sua linfa vitale senza alternative. È più di un dettaglio. È un
esempio di quelli che si moltiplicano in altri Paesi visitati da quella
“primavera”, non solo nel mondo arabo. Si pensi alla Siria, ma anche
all’Ucraina e, magari, al Venezuela.