Alberto Pasolini Zanelli
Può l’Occidente
imparare qualcosa da delle elezioni locali in Turchia? Molti ne dubiteranno,
immersi come sono in ansie più immediate, e più vicine anche nello spazio della
vicenda personale di Tayyip Erdogan, che dopo un decennio di potere quasi
incontrastato e coronato da successi economici eccezionali, ha rischiato nelle
ultime settimane di essere travolto da una sollevazione politica e morale di
larghi strati della popolazione turca: al punto da doversi aggrappare alla
prova del fuoco di elezioni originariamente locali. La miccia fu accesa da una innocente
protesta di natura ecologica riguardante un parco di Istanbul ma la detonazione
è venuta dalla pubblicazione su dei siti web di “scandali” finanziari di
partito e familiari, cui egli ha reagito con gesti autoritari quali la chiusura
di Twitter. Ma la voce della contestazione si è fatta ancora più forte, anche perché
ha trovato una “guida spirituale” in un religioso di nome Fethullah Gulen, ex
alleato di Erdogan e che ora vive negli Stati Uniti. Gli scontri di piazza si
sono moltiplicati, dei ministri hanno preso le distanze dal premier, chieste le
sue dimissioni. Si sono ingarbugliati nel frattempo i suoi rapporti con
l’Occidente e soprattutto con l’Europa proprio mentre Erdogan manteneva un
ruolo di punta nelle complesse operazioni politico-militari contro la Siria. Lui si dà da fare, dice,
per abbattere un regime, egli è stato messo, quasi, con le spalle al muro sotto
l’accusa di guidarne lui un altro. La spinta finale dovevano essere queste
elezioni amministrative, che il calendario avrebbe messo come una pietra per
farlo inciampare nella sua fuga verso una “promozione” da primo ministro a
Presidente della Repubblica.
Poi i turchi sono
andati alle urne e ha vinto lui, in misura quasi plebiscitaria. Il partito di
Erdogan ha ottenuto il 46 per cento dei suffragi distanziando di ben 17 punti
la principale opposizione. Ha vinto ad Ankara e ad Istanbul, è stato superato
solo nell’area curda e nei centri costieri come Smirne ha conservato il
plebiscitario consenso dell’Anatolia rurale. Erede dell’Impero Ottomano, la Turchia ha molti vicini
tutt’altro che nostalgici del suo passato dominio. Ha confinato a lungo con la Russia (ha occupato per un
certo tempo la Crimea ),
ora confina da un lato con la
Grecia e la
Bulgaria , dall’altro con il Caucaso, l’Iran e la Siria (anche la Palestina è stata dominio
turco fino al 1918, quando già vi si insediavano i sionisti). Con Damasco i
rapporti sono attualmente tesi, da quando Erdogan si è lasciato sospingere dal
“vento della storia”, ospitando e armando i guerriglieri anti Assad (ancora
l’altro giorno l’aviazione turca ha abbattuto un aereo siriano). In compenso
Ankara ha conosciuto negli ultimi anni un vero e proprio boom economico, tale
da essere definito “alla cinese”, che le ha permesso di intiepidire i suoi
slanci europei, mai ricambiati. Ed è probabilmente a questo che i turchi hanno
finito col pensare soprattutto invece che alle polemiche scandalistiche e alle risse
della classe politica. Hanno votato, cioè, “col portafoglio”.
Qualcuno in
Occidente li criticherà per avere messo in secondo piano proteste e gli aneliti
così diffusi fra i vicini arabi da un paio di “primavere”. Dovremmo invece
cercar di capire il perché. Questoo voto
“spassionato” e sostanzialmente conservatore è anche una risposta a una certa
moda e a una diffusa illusione in Occidente: la potenza dei social network e la
saggezza delle piazze. La piazza Taksim a Istanbul doveva essere l’equivalente della
Tahrir del Cairo e della Maidan a Kiev, culle di rivoluzione innanzitutto “morale” e
liberatrice, in qualche modo moralmente superiore alle scelte delle urne, un
“potere popolare” insaporito dai “cinguettii” informatici. Quella che viene
dalla Turchia è una smentita in più al mito che la piazza abbia sempre ragione,
le dimostrazioni e le marce siano il solo viale del Progresso e sempre
positive. Mentre invece la piazza a volte abbatte dei tiranni ma più spesso
svuota le istituzioni democratiche, soprattutto quando sono fragili. Un predecessore
di Gulen fu, non dimentichiamolo, Khomeini dal suo esilio di Parigi. La
protesta popolare in Siria ha fruttato finora tre anni di sanguinosa guerra
civile, in Egitto ha portato un’alternanza fra gli estremisti islamici e le
dittature militari. E anche a Kiev la Rivoluzione Arancio
di quattro anni fa riuscì soprattutto a destabilizzare l’Ucraina mentre il bis
odierno ne ha compromesso anche le frontiere. Meglio le urne, dunque, dei
sassi, di Twitter, degli ayatollah giustizialisti, dei cecchini nelle strade.