Alberto Pasolini Zanelli
La rissa
diplomatico-militare sull’Ucraina e la Crimea trova inattesi imitatori: per
esempio in Alaska. Migliaia di cittadini americani raccolgono firme sotto un
documento che chiede che la loro vasta terra venga “restituita alla Russia”. In
tre giorni pare abbiano sottoscritto in 17mila questa petizione “sediziosa” e
altre migliaia stanno facendo la “fila” in Internet. Ne occorrono centomila di
firme perché una petizione di secessione venga esaminata dal governo di
Washington.
Motivazione: ci
sono troppi neri il cui comportamento non piace ai figli e ai nipoti dei cercatori d’oro insediati nella terra del
ghiaccio e del petrolio sovrabbondante. Non è probabile che ottengano il loro fine, la tradizione e la
legislazione Usa sono dimostrabilmente ostiche. Basta pensare alla sedizione
del Sud di un secolo e mezzo fa: finì con quattro anni di guerra civile e
seicentomila morti. E ancor più improbabile che lo ottenganono gli alaskani:
gente eccentrica da eleggere governatore una Sarah Palin (un nome, a proposito,
che suona russo) e di candidarla alla vicepresidenza anche; si vantava di
“vedere la Russia” dalle finestre di casa. Tra l’Alaska e la Russia corre in un
certo punto un ruscelletto marino largo meno di due chilometri e i russi, lo
sappiamo, furono i primi a colonizzare quell’aspra terra artica che gli
sembrava una continuazione diretta della Siberia. La tennero per un po’, poi
uno zar dalle casseforti vuote si decise a venderla all’America, che aveva il
portafoglio pieno, a condizioni di favore.
Quella che si
ripropone oggi non è però una transazione commerciale, ma una parodia di quello
che sta accadendo in terre e mari più caldi climi di terre bagnate dal Mar Nero
e non dall’Artico. E il cattivo esempio trova altri imitatori.. Si sono già
candidati a un’analoga rissa Cina e i Giappone, accusandosi a vicenda di
volersi comportare da russi o da americani, mentre in Europa si addensano nubi
sulla Transnistria, una nazione temporaneamente indipendente dopo essere
appartenuta alla Russia, alla Romania, alla Turchia eccetera. E che conta meno
di duecentomila abitanti ma alle cui frontiere, secondo gli allarmisti di
professione o di dovere, si starebbero “concentrando le armate russe” pronte a
“sbarcare”. Operazione non facile dal momento che la Moldova, di cui la
Transnistria è parte, non dispone accessi al mare.
Il mondo,
insomma, è o appassionato alla questione o diviso. Lo si è visto anche nel voto
all’Onu sulla mozione di solidarietà verso l’Ucraina, che ha raccolto cento
“sì” ma anche un’ottantina fra “no” e astensioni, compresi membri “grossi”. Lascia
perplessi l’invito a rafforzarsi
militarmente da un America che si impegna a evitare dal canto suo
“passeggiatine belliche”, rivolto a Paesi alle prese con l’Austerity e con la
Spending Review e di tutto hanno voglia tranne che di aumentare il bilancio dei
giochi di guerra. Neanche “fredda” o commerciale. Lo stanno facendo. Senza dire
di no in faccia a Obama lo fanno capire in tanti modi. Soprattutto in Germania,
che dovrebbe essere due ex cancellieri,
Helmut Kohl e Helmut Schmidt; così come ha fatto in Italia Berlusconi in
termini anche più recisi. Più morbide le parole, più significativi la “musica”
e le omissioni in arrivo da Londra: il premier Cameron, normalmente un “falco”,
promette stavolta solidarietà ma consiglia prudenza: non può non tenere conto
che la Gran Bretagna è il principale “porto di sbarco” e di “villeggiatura” di
moltissimi fra gli “oligarchi” in arrivo da Mosca, quelli che fanno salire alle
stelle il prezzo delle case più eleganti e comprano giornali e squadre di
calcio. La Gran Bretagna, del resto, conta di portarli entr inferiore a quello
disponibile a Waterloo nel 1815. Perfino in Francia, che nei casi della Libia e
della Siria è alla testa dei “falchi”, ha cambiato tono: pare essersi resa
conto che Mosca non è Tripoli o Damasco. Dunque l’incitamento Usa, sintetizzato
da Kerry nell’impegno a “sguainare la spada fino all’elsa”, già “limitato”
dalla strategia di Obama: “Non ci pensiamo neanche a fare passeggiate militari
da quelle parti”. Condanne sì, proteste, iniziative bancarie, chicane valutarie.
Una “dose” che Putin dovrebbe potere “digerire” senza troppi dolori.
Intanto Obama
cambia discorso, se ne va in Arabia Saudita a parlare di affari e di petrolio.
Tanto che non sembra ricordarsi più di avere, poche settimane fa, disertato la
cerimonia dell’apertura dei giochi olimpici invernali a Sochi perché la Russia
tratta male gli omosessuali. L’Arabia Saudita è tutta un’altra cosa: si limita
ad applicare loro la pena di morte.
pasolini.zanelli@gmail.com