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“Il nemico del mio nemico è mio amico”



Alberto Pasolini Zanelli
Il 2015 finisce come era cominciato: con l’apertura di un nuovo “fronte” principale di una guerra che dovrebbe essere mediorientale e islamica ma che investe sempre di più il resto del pianeta. Principalmente l’Europa, soprattutto la Francia. Ci sono delle cronache insanguinate di novembre, agghiaccianti paralleli con quelle che inaugurarono il gennaio: un conflitto “esotico” e mondiale che si accentra su Parigi, ricordando nel modo più sinistro ai molti che se ne erano dimenticati che quella è tuttora, quando si va al fondo delle cose, la capitale dell’Europa.
Il primo assalto, quello concentrato su una rivista satirica che aveva osato dedicare vignette aspre all’Islam e al suo Profeta, aveva sorpreso i governi del nostro continente, compreso forse quello francese, e messo in discussione le strategie e le proporzioni internazionali del conflitto. La strage delle ultime ore, infinitamente più sanguinosa, è ancora più allarmante perché non ha avuto un bersaglio preciso ma solo lo scopo di far sanguinare Parigi, di uccidere il maggior numero possibile di francesi cogliendoli nei momenti più distaccati e rilassati: in un anfiteatro di musica popolare, allo stadio per un appuntamento calcistico internazionale. Non “dare un esempio”, come è frequente negli attentati terroristici, bensì fare vittime, colpire, non fare paura ma spargere sangue. Una strategia quasi senza precedenti, soprattutto in Europa e che ricopia quella antica riservata alle aree direttamente coinvolte in quella guerra. Parigi trattata come Mossul, concepibilmente come Palmira, nelle carni oltre che nei marmi delle statue e dei templi. Dalla guerriglia alla guerra, dall’insidia all’offensiva aperta. Anche la risposta dovrà essere differente, più massiccia e soprattutto più coerente. Questa guerra non consiste più soltanto in “esempi” da dare, in “moniti” sottolineati da raid più o meno isolati. C’è un “fronte”, almeno adesso, più chiaramente che in qualsiasi altra fase del conflitto e sul fronte sarà inevitabile combattere in modo più massiccio e con meno illusioni accettando, per cominciare, un collegamento coerente, un sistema aperto di alleanze. Dovrebbe diventare chiaro a tutti i governi di Occidente che è diventato impensabile colpire a tratti e separatamente il comune nemico di marca Isis e dedito ormai alla guerra totale contro l’Occidente, attaccando i terroristi dall’aria e continuando a colpire i loro nemici in modo che le due azioni spesso si elidono a vicenda. Oltre all’identità del Nemico si dovrà riconoscere poi quella degli alleati, forse tutti ma comunque chiaramente sì o no dentro una struttura politico-militare.
A cominciare, naturalmente, dalla Russia. Che ha le sue colpe passate, che non siamo abituati a considerare alleata dal 1945 in poi, che non ha completato la sua trasformazione in senso esemplarmente democratico, ma che si trova, per sua scelta o per decisione del comune avversario, dalla nostra parte. I raid aerei coordinati da Putin dovrebbero sommare i loro risultati con quelli disposti da Obama o da Hollande. Non si può continuare a distinguere fra “cattivi” dalla parte dei cattivi e “buoni” perché i cattivi non coincidono sempre. La nuova strage di Parigi ribadisce con i fatti la validità di un detto secolare: “Il nemico del mio nemico è mio amico”. Ci piaccia o meno. Non siamo certamente obbligati a fare nostro il linguaggio di Vladimir Putin, riferito dai media iraniani e incardinato nella frase: “Giustizierò il Califfo in piazza a Mosca”. Non è il nostro linguaggio e non deve esserlo. Quello che conta è che i fatti combacino così come hanno una loro turpe coerenza i fatti del nemico comune: da Palmira a Parigi, dalla Siria alla Francia, dai deserti mediorientali alle nostre metropoli.