Alberto
Pasolini Zanelli
Francois Hollande
non perde tempo. A quanto pare ha già scelto. Rifà le valigie, riparte alla
ricerca di aiuti per la Francia aggredita. Comincia da Washington come vuole il
protocollo, ma la tappa immediatamente successiva è Mosca. Il presidente
francese è latore di un identico messaggio in due copie: una per Obama e una
per Putin. E molto semplice: un invito a “superare le divergenze di interessi”
per unirsi nella lotta, nella guerra contro lo Stato Islamico. Un linguaggio
insolitamente chiaro, che solo la Francia può tenere in Europa. Perché la
strage è avvenuta a Parigi e perché Parigi ha le carte in regola. Nessun altro
Paese europeo ha trovato finora il coraggio e la lucidità di affrontare il
radicalismo islamico sia sul proprio suolo, sia in vari altri teatri lontani,
dal Mali, all’Irak, alla Siria. Hollande è considerato un pacifista, si è
presentato come tale, si è distinto dal predecessore e rivale Sarkozy per non
avere lanciato la palla rovente che ha finito per ardere la Libia e, anche di
fronte alla più complicata crisi siriana, ha saputo decidere in fretta. Può
contare sull’alleato-mentore dell’ultimo secolo ma anche, crede, su uno nuovo.
Francia e Russia hanno in questo momento interessi e passioni in comune. La
strage di Parigi non ha aperto soltanto un “secondo fronte” in Europa, ha
offerto anche una occasione preziosa a Vladimir Putin. Da due mesi il
presidente russo cercava di persuadere i Paesi arabi e dell’Occidente a
stipulare un’alleanza globale contro lo Stato Islamico, esemplificata da
un’offensiva russa in Siria. La sua proposta era stata rifiutata e aveva dovuto
rallentare la sua iniziativa militare. Oggi, dopo Parigi, il presidente
francese pare essersi totalmente convertito al progetto del Cremlino di una Grande
Alleanza. Andrà presto a Mosca a suggellare l’intesa e già prima si presenterà
a Washington con questa carta in tasca. Putin fa di tutto per incoraggiarlo. Ha
definito “provata” la paternità terroristica dell’abbattimento dell’aereo
passeggeri russo sul Sinai, ha replicato scatenando un’ondata di attacchi
contro Raqqa, “capitale” dello Stato Islamico. Ha messo in tavola, insomma,
tutte le sue carte. Adesso tocca all’America “vedere” o rilanciare. Il che è molto
più difficile per Obama che per Putin. Non tanto per i rischi militari, quanto
sul piano diplomatico. Da un lato l’uomo della Casa Bianca è sotto una raffica
di critiche dai repubblicani per aver dovuto ammettere che la sua strategia
“moderata” in Siria è finora fallita; dall’altro è nel mirino di quella stessa
opposizione per il sospetto di “aprire” troppo al Cremlino. Il presidente Usa
ha già riconosciuto, nei colloqui di Vienna, alla Russia il titolo di “partner
costruttivo”, ma l’ha invitata, in una critica di rilievo, a concentrare le
iniziative militari più sull’Isis, escludendo altre organizzazioni come quest’ultima
dedicate a combattere il regime di Damasco. È una concessione ai “falchi” di
Washington, che arrivano ad ipotizzare che entrando in guerra Putin finirebbe
con l’“aiutare indirettamente” gli islamici invece di distruggerli. Tutto
questo a vantaggio di Assad, che i russi hanno sostenuto e difeso fin dal primo
giorno e che avrebbe tutto da guadagnare da una pausa o cessazione delle
attività militare delle opposizioni. Una intensificazione dei combattimenti,
non solo in Siria ma anche su altri teatri mediorientali o europei, darebbe
ossigeno al regime di Damasco e consentirebbe a Mosca di recuperare e
consolidare il proprio ruolo di potenza regionale. Putin agirebbe, insomma, nel
proprio interesse, cosa estremamente probabile ma a costi difficilmente
digeribili da Washington. A cominciare dai toni. L’ultimo “proclama” del
Cremlino, di viva voce dello “Zar”, è sonante: “Perdonare i terroristi spetta a
Dio, mandarglieli spetta a me”. Un “programma” che somiglia un po’ troppo a un Bollettino
della Vittoria e come tale suscita imbarazzo a Washington. Dove i “falchi”
spargono già un altro sospetto: che Putin alzi la posta in Siria per ottenere
un guadagno eventualmente da scambiare strappando all’America importanti
concessioni in Ucraina, primo “fronte” dell’abbozzo di una nuova, piccola
Guerra Fredda.