Alberto
Pasolini Zanelli
“Adesso Montanelli
è morto proprio del tutto”. È stato il pensiero di molti, non soltanto fra gli
amici e i colleghi, all’annuncio che anche Mario Cervi ci ha lasciato. Forse
non erano proprio gemelli, ma sicuramente erano integrati come nessuna altra
coppia nella storia del giornalismo italiano, ricco più di altri in figure
memorabili anche sul piano umano, ma spesso cresciuti all’insegna della
rivalità. Montanelli e Cervi, Indro e Mario, seppero solo collaborare nella
scrittura e nel lavoro. Fecero insieme giornali, insieme scrissero libri. Avevano
entrambi un sesto senso per la cronaca (e quel che essa poteva dire in
anticipo) e una comprensione meditata per la storia. La Storia d’Italia: un’idea di Indro portata in gran parte al traguardo,
tredici volumi dopo, da Mario, un’opera che continua ad essere richiesta da lettori
di tutte le età inclusi – e questa è davvero una sorpresa – da coloro che sono
giovani nell’era dell’eterno presente. La sapevano scrivere anche perché
l’avevano vissuta, a cominciare dagli Anni Brutti che sono quasi sempre i più
importanti. A cominciare dalle guerre. Indro le conobbe presto, in Etiopia da
soldato, in Spagna da giornalista e poi nell’inverno del conflitto
russo-finlandese; Mario in Grecia, in uniforme. Fu la sua “campagna” più
importante: visse l’esperienza dell’avanzata, quella dell’occupante, quella del
prigioniero, catturato dai tedeschi nel 1943 quando l’Italia militare ovunque
crollò. Ma vi trovò soprattutto l’amore. Il peggio doveva ancora venire,
soprattutto per Montanelli, che conobbe il carcere della persecuzione politica,
la clandestinità, l’emigrazione.
Quando tutto
rinacque erano pronti a raccontarlo, a cominciare dalle vicende del nostro
Paese, da una tribuna allora ascoltatissima nell’epoca in cui le notizie si
apprendevano ancora sulla carta stampata dei quotidiani. Montanelli diventò ben
presto Montanelli; Cervi si costruì. C’era fra i due, fra l’altro, una
differenza di età. Il toscano di Fucecchio era nato nel 1909, il lombardo di Crema
nel 1921. Il Corriere era la strada
maestra per entrambi. I testimoni. Nella Storia
d’Italia Indro si avventurò da solo, presto coadiuvato da Roberto Gervaso,
ma già la terza tappa, L’Italia littoria
fu all’insegna della doppia firma Montanelli-Cervi. Lavoravano a quattro mani:
Montanelli seminava i suoi intuiti, Cervi li faceva crescere nutrendoli di fatti,
Montanelli li rileggeva e ci inseriva nuove “luci”. Erano talmente fusi che col
tempo nessuno poteva distinguere dallo stile chi aveva scritto questa o quella
pagina, pensato o narrato questa o quella vicenda. L’ultimo doveva essere L’Italia dell’Ulivo, che doveva
rivelarsi come una parentesi nell’Italia di Berlusconi, destinata a durare un
altro decennio. Una vicenda intrinsecamente legata con quella del Giornale, fondato da alcune fra le più
gloriose firme del Corriere, guidato,
non poteva essere altrimenti, da Indro in cui Mario militò fin dal primo
giorno, di ritorno dalla sua avventura di inviato sotto la vecchia bandiera, il
dramma cileno dall’avvento di Salvador Allende alla sua drammatica esperienza,
alla rivoluzione militare di Augusto Pinochet e alla sua dittatura inaugurata
proprio dalla morte di Allende. Cervi aveva già vissuto altre crisi, dalla
“Guerra di Suez” al “golpe dei colonnelli” in Grecia. Anni di piombo in Sud
America e presto anche in Italia.
Piombo entrato
anche nelle carni di Indro, bersaglio di terroristi che non avevano capito né
lui, né l’Italia, né la storia, né lui. Mario Cervi era l’“Inviato”, il
commentatore, quello che spiegava le cose. L’impresa dei due si consolidava,
restava tempo anche per avventure personali. Per esempio le perturbazioni del
cuore di Cervi. Glielo misero al riparo i medici inserendovi una “macchinetta”
e rassicurandolo di averla “programmata” per cinque anni. Ci rimase male, gli
parvero un po’ pochi. Gli spiegarono che il progetto teneva conto della sua
età: aveva compiuto gli 80, gliene rimanevano, statisticamente, da vivere altri
cinque. Diventarono quindici fino a ieri. Fu un’altra vittoria.
Cervi sopravvisse
a un’altra crisi, professionale. Quando al Giornale
si ruppe l’amicizia tra Montanelli e Berlusconi e Indro sentì di doversene
andare per una nuova avventura. Aveva 85 anni e, fedele amico, lo seguì. Non
vinsero quella battaglia, La Voce
chiuse i battenti e Mario si sentì libero di tornare al Giornale, anche per ricucirne i ranghi. Ne diventò anzi Direttore, continuatore
anche formale di Indro. Ci rimase fino al giorno in cui compì 80 anni. Lo precedettero
molti colleghi, la moglie e anche l’ultimo dei suoi amatissimi barboncini, che
egli battezzava tutti come Golia. Mario continuò fino all’ultimo giorno,
invece, a frequentare il Giornale, a
rispondere alle affollate lettere dei suoi lettori, a dimostrare ai colleghi il
calore della sua amicizia.