Siamo - in Italia,
in Europa, nel mondo che vi partecipò - nel pieno delle celebrazioni del
Centenario della I Guerra mondiale. Di quel massacro che provocò - tra assalti
ancora a campo aperto e all’arma bianca da un lato; e l’impiego, per la prima
volta nella storia, di nuove tecnologie devastatrici come i cannoni a lunga gittata,
le mitragliatrici e i primi carri armati, dall’altro – 9 milioni di morti in
battaglia. Dei quali 650.000 italiani. Erano tutti giovani, anzi, la maggior
parte giovanissimi, ciò che è costato il sacrificio di un’intera generazione di
uomini. Molti di essi erano i nostri
nonni.
Ciò nonostante, per i problemi lasciati irrisolti
dalla Grande Guerra del 1915-1918, e nel tragico ripetersi degli errori nella
Storia, vent’anni dopo il mondo ci ricascava. Era la II Guerra mondiale. Di cui
sono stati appena celebrati, sulle spiagge della Normandia, i 70 anni dalla sua
conclusione. I morti solo tra i militari furono 22 milioni e mezzo, ma tutte le
vittime furono 71 milioni. Molti dei quali erano, invece, i nostri padri.
Guerre devastanti – non solo “regionali” ma
ormai anche “multi-regionali” – sono oggi in corso in Medio Oriente e in
Africa. E stanno falcidiando altre generazioni di giovani: sia vittime del
tutto innocenti, sia, al contrario, vittime “invasate” dal radicalismo di
un’ideologia o dalla folle interpretazione di una religione.
Poi c’è l’Europa.
Nella quale,
appunto, appena 70 anni fa ci si sparava gli uni contro gli altri (più
precisamente ci si contrapponeva tra chi voleva la democrazia da una parte e i
nazi-fascisti dall’altra). Ma subito dopo la fine di questo conflitto, si è tornati
a contrapporsi nuovamente in una guerra definita, questa volta, “fredda” (tra
chi aveva eretto un muro “di regime” tra Europa centro-orientale e il nostro occidente);
un muro che a Berlino è stato, come ben sappiamo, una vera e propria barriera
di cemento, caduta la quale ci siamo illusi che l’Europa potesse diventare finalmente
un giardino, di belle speranze.
Certo, con molte erbacce: vedi i leader
populisti che sono arrivati al potere in Ungheria, Polonia e Turchia (che non è
affatto Medio-Oriente) e l’ascesa in Francia della destra razzista della
famiglia Le Pen; o la presenza di agguerriti movimenti indipendentisti e “regionalisti”
in Spagna, in Gran Bretagna, in Belgio etc e anche in Italia (basti pensare
alle posizioni pre-politiche e qualunquiste di quei due arruffa-popolo di
Salvini e Grillo).
L’Europa è quindi,
oggi, un giardino minacciato. Ma non dal fiume di immigrazione disperata (che
quando regolarizzata può portare anche ricchezza e pagare ad es., con i
contributi che versa, parte delle pensioni degli italiani); bensì da coloro che,
nonostante tutto quello che avrebbe dovuto insegnargli la Storia, vogliono
ancora dividersi, andare per proprio conto, seguire i propri nazionalistici
interessi e tornaconti, rifiutare lo straniero e forse chissà, un giorno, pur
di difendere i propri privilegi, tornare a spararsi.
In questo quadro,
che cosa possiamo raccontare ai nostri figli?
Qualche
suggerimento ce lo dà un Sondaggio sui bisogni dell’adolescenza appena
realizzato dal ‘Garante per l’infanzia’. Racconta una generazione che si
rivolge agli adulti per avere delle risposte, che ha archiviato ‘il conflitto’
ma chiede al mondo adulto nuove guide, nuovi leader (v. Papa Francesco, Obama,
Ban Ki-moon, il segretario delle Nazioni Unite). L’attualità politica non li
interessa, ma chiede più giustizia, verità, lavoro naturalmente, e di “avere
qualcosa in cui credere”, una bussola per il proprio futuro.
Molto rinchiusi nel
privato, sono pieni di connessioni (elettroniche) ma con pochissime relazioni
(umane).
Che terreno fertile
per chi volesse, e sapesse, fornire buone idee e modelli alti di comportamento,
per figure che facciano da guida, buoni maestri capaci di generare fiducia,
valorizzando quell’enorme serbatoio di freschezza, intelligenza e bellezza che
sono i nostri ragazzi!
Queste idee, questi
modelli alti, questa prospettiva, questa guida avrebbe dovuto esserla, anzi, dovrebbe
essere, l’Europa: quella disegnata da Altiero Spinelli però, mentre era obbligato
al confino sull’isola di Ventotene durante il fascismo; non certo quella assai
minore, fatta di veti e di burocrati e fine a se stessa, oggi a guida Angela
Merkel (e non solo).
Vorrei chiudere
queste poche riflessioni con una delle più belle pagine della letteratura
italiana di guerra, tratta dal Sergente
nella neve. Ricordi della ritirata di Russia di Mario Rigoni Stern. Una
pagina, sul finale del libro, che narra di un fatto vissuto realmente dal
grande scrittore e che non si può secondo me solo raccontare, ma che si deve
leggere, e si deve far leggere, e che perciò qui di seguito integralmente
trascrivo.
“Compresi gli uomini del tenente Danda saremo in tutto
una ventina. Che facciamo qui da soli? Non abbiamo quasi più munizioni. Abbiamo
perso il collegamento con il capitano. Non abbiamo ordini.Se avessimo almeno
munizioni! Ma sento anche che ho fame, e il sole sta per tramontare. Attraverso
lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d’occhio.
Corro e busso alla porta di un’isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono
armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo
impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il
cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi
a mezz’aria. – Mniè khocetsia iestj, - dico. Vi sono anche delle donne. Una
prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera
di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in
spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne
mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio
cucchiaio nel piatto. E di ogni mia boccata. – Spaziba, - dico quando ho
finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta, - mi
risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano
mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la
minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di
darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.
Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto
strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci
stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono
naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di
offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo
sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i
bambini, un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di più del rispetto
che gli animali della foresta hanno uno per l’altro. Una volta tanto le
circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove
saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li
abbia risparmiati tutti. Finchè saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti
eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo
una volta, potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a
innumerevoli uomini e diventare un costume, un modo di vivere.
Ecco, questo ad
esempio possiamo raccontare, anzi far leggere, ai nostri figli.