Alberto
Pasolini Zanelli
L’ennesima strage
jihadista ha allargato i confini di quello che chiamiamo ancora Occidente. Che
in questo momento ha tre capitali, di differente umore. Parigi ruggisce la sua risposta,
con gesti come l’affollamento dei Caffè all’aperto come sfida agli uomini del
kalashnikov. Mosca è una fucina di proposte concrete ma non urlate, difficili
da respingere anche se non disinteressate. Washington è un campo di battaglia
all’insegna del titolo di un “classico”, Sound
and Fury. E il fuoco si concentra, inevitabilmente, su Obama che, per una
coincidenza che qualcuno scambia per prudente saggezza, risponde da più lontano
che può: dalla Turchia, dalle Filippine, da un po’ tutto il Sud-Est Asiatico.
Risponde con fermezza, anzi durezza, ma evidentemente con l’amaro in bocca,
sulla difensiva. Era inevitabile. Gli eventi tragici degli ultimi giorni hanno
smentito la sua più impegnativa previsione: che lo Stato Islamico era
“contained”, sotto pressione, sotto controllo, insomma sulla difensiva. Si è
visto fin troppo chiaramente che ciò non era vero. Una smentita così spiega lo
stato evidente di frustrazione del presidente americano, la severa fessura che
si è prodotta nella sua strategia, che era basata sulla forza aerea Usa e per
il resto sulle iniziative terrestri di forze “amiche”, soprattutto in Irak e in
Siria.
È accaduto il
contrario: il Califfato ha esteso il suo raggio d’azione, si è rafforzato come
magnete e ispirazione per i militanti jihadisti intorno al mondo. La vera
novità è anzi l’espansione dell’attività degli integralisti che ha raggiunto
ormai una scala planetaria. L’hanno dimostrato in pochi giorni l’abbattimento
dell’aereo russo sul Sinai, il sanguinoso bombardamento di Beirut e, con più
risonanza di tutti, la strage di Parigi. Una sconfitta per tutti, dicono ora i
repubblicani, che non dimenticano mai di essere in campagna elettorale e che,
oltre che attaccare Obama, devono farsi concorrenza all’interno di un gruppo
troppo nutrito di candidati alla Casa Bianca.
Si distinguono
naturalmente i più vecchi “falchi”, guidati da due ex candidati sconfitti
entrambi da Obama, John McCain e Mitt Romney, che chiede addirittura il blocco
dell’immigrazione dal Medio Oriente anche per i profughi, fra i quali possono
nascondersi dei terroristi. Un altro aspirante al potere, il senatore Graham,
propone che gli Stati Uniti scendano sul terreno alla guida di una coalizione
di centomila truppe di terra per ricatturare gradualmente le aree occupate
dagli integralisti in Siria e in Irak, ampliando una strategia messa alla prova
in questi giorni dai curdi che puntano a riconquistare Sinjar nel Nord dell’Irak.
Si presenta come un successo, ma poco più che unico. In Siria è stato tentato
un esperimento del genere sotto guida americana. Vennero arruolati dozzine di
ribelli già attivi da anni sotto l’esercito regolare siriano che obbedisce al
presidente Assad: ma dopo uno sforzo di mesi il Pentagono è stato costretto a
rinunciare, dato che gli “acquisti” avevano in gran parte disertato ed erano
rimasti solo cinque. Un’altra proposta di area repubblicana riguarda l’arma
aerea. L’America dovrebbe stabilire una “zona di divieto di sorvolo”
sull’esempio di quelle istituite fra la prima e la seconda guerra contro Saddam
Hussein per impedire all’aviazione di quest’ultimo di bombardare le zone di
“sedizione”. Ma la ricetta è inapplicabile oggi, per varie ragioni la
principale delle quali è politico-militare. L’Isis non dispone di aerei e
quindi non ha molto senso istituire una struttura per impedirle di fare quello
che non può fare. Il danno sarebbe invece tutto per l’esercito regolare di
Damasco ed è stata anzi finora l’arma che più ha contribuito a mantenerlo al
potere, sia pure in misura assai precaria, in questi quattro anni di guerra
civile. Il divieto di volo costituirebbe dunque un indiretto aiuto ai
terroristi dell’Isis. Obama lo ha fatto presente con chiarezza.
Ma con ancor
maggiore “passione” il presidente ha reagito alla proposta di una guerra
globale di terra, di logoramento e con il fine di distruzione del nemico. Tutto
questo, egli ha detto, comporterebbe gravi perdite umane fra le forze Usa, un
prezzo che Barack Obama non intende pagare, confortato in questo da una netta
maggioranza degli americani. “Chi ha una manciata di persone disposte a morire
è in grado di uccidere molti nemici. O di infliggere gravi sofferenze. Lo so
per esperienza diretta: ogni paio di mesi vado in visita all’ospedale militare
Walter Reed, a Washington e incontro un ragazzo di 25 anni che è paralizzato,
ha perso le sue membra e che io ho spedito in battaglia. Non sono più disposto
a farlo per un gioco politico”. Che poi non servirebbe, come dimostra l’esperienza.
“Il passato – conclude Obama -, quello in Afghanistan e quello in Irak, ha
dimostrato che l’alleanza occidentale è perfettamente in grado di creare vuoti
di potere nel Medio Oriente ma non è capace poi di riempirli”.