Alberto Pasolini Zanelli
Non c’è stata una
sorpresa, ma neppure una valanga.
“uomo contro” nei lunghi mesi della campagna elettorale, uomo da battere
favoritissimo nelle ultime settimane prima del ballottaggio, ha vinto, non
stravinto. Si è portato a casa il 51 per cento dei voti, che non è un
plebiscito, ma neppure è poco se si tiene conto che il suo avversario aveva la
benedizione del presidente uscente e non ricandidabile Christina Fernandez de
Kirchner e soprattutto si aggrappava al mito di Peron.
Che in parte ha
ancora funzionato, spiegando così il recupero del 7 per cento di Macri negli
ultimi due giorni della campagna elettorale, ma che questa volta non è bastato.
Ha prevalso un sentimento meno mitico e più diffuso, il malcontento,
soprattutto per la situazione economica. Niente di nuovo per l’Argentina, Paese
teoricamente ricco ma tormentato da crisi ricorrenti in genere attribuite al
malgoverno. È una malattia ricorrente, così radicata da avere dato vita perfino
a un aneddoto celeste. Nei giorni della Creazione, Dio avrebbe abbondato nei
doni a quella che doveva diventare Argentina e a qualcuno che glielo fece
notare, non si rifiutò di rispondere con un gesto riequilibratore: “Le abbiamo
dato il grano e il petrolio, adesso però le diamo gli argentini”.
Che si sono
comportati da argentini, in un’alternativa secolare di boom e di crisi, di
entusiasmo e di grugniti, di comportamenti spesso definiti “italiani”. Che non
saranno i “padroni” finanziari del Paese, ma nel campo politico la fanno di
solito da dominatori, con un elenco ben folto di generali golpisti e dittatori
ma anche e soprattutto di leader democraticamente vittoriosi anche se un
tantino demagoghi. Christina Fernandez de Kirchner è stata l’ultima,
rappresentante di una dinastia familiare, alla Casa Rosada. Un turno al marito
e uno a lei. Era difficile distinguere i programmi della coppia felice. Quest’anno
il consorte era morto e lei non poteva candidarsi di nuovo. L’ultima volta era
stata rieletta trionfalmente, ma era uno dei momenti buoni nell’altalena
argentina, uno dei tanti boom, ispirati a uno precedente contrassegnato, come è
regola laggiù, da un aneddoto inventato ma vero: il cittadino argentino che va
a fare compere nel vicino Uruguay, nel negozio si informa sul prezzo e,
uditolo, aggiunge subito “demi dos”, “me ne dia due”, tanto il peso era
pesante.
Non poteva durare e
non durò. L’inflazione è un ospite ben conosciuto al desco di Buenos Aires. Riflette
difficoltà reali, altre inasprite da boicottaggi guidati dall’estero, altri
ancora, i più, da eccessi di entusiasmo nei governati e demagogia dei
governanti. Con uno stile ereditato dall’autentica “dinastia argentina”, il
peronismo, dalla durata record: il generale Juan Domingo Peron arrivò al potere
nel 1945 e da allora è rimasto protagonista, immortale. Per cacciarlo i
militari hanno dovuto ricorrere a un golpe, ma molti anni dopo, più falliti di
lui, hanno dovuto richiamarlo dall’esilio spagnolo. Era già vecchio, si spense
presto. Niente paura: elessero la moglie, la seconda, non la mitica Evita,
sepolta nella sede dei sindacati e immortalata da un musical che non passa di
moda. Un nuovo golpe cacciò la seconda consorte, ma poi si dovette tornare alle
urne e rivinsero i peronisti, tutt’altro che defunti: la “batosta” di domenica corrisponde
al 49 per cento dei voti, invidiabile in qualsiasi altro Paese.
Neanche Macri, il
vincitore, il “liberista”, l’“uomo di destra” osa. Si è limitato, nella
campagna elettorale, a dirne di tutti i colori su Christina Fernandez de
Kirchner. Il peronismo ha sempre avuto più volti. Il più conosciuto è l’“amore
dei poveri”, soprattutto per la memoria di Evita ma anche del generale. Un
populismo radicato che negli ultimi tempi si è avvicinato un po’ troppo a un
più recente mito sudamericano, il “progressismo” del venezuelano Hugo Chavez,
il cui successore annaspa adesso in una crisi economica al cui confronto l’Argentina
è in un boom. Macri ha saputo adeguarsi, soprattutto durante la campagna
elettorale: da “neoliberale” si è trasformato in “social-liberale”, ha
attenuato le sue promesse di privatizzazioni, si è spostato al “centro”. Come
fanno prima o poi quelli che vogliono vincere. Anche solo con il 51 per cento.