Alberto Pasolini Zanelli
C’era una volta la Voce dell’America. Radiofonica
e poi televisiva. Ascoltatissima nei giorni della Guerra Fredda e ancora di più
prima, nei giorni di guerra e basta. Potente, compatta, riconoscibilissima. Quella
di adesso passa per i telefonini, le e-mail, gli I-Pad, i social network,
onnipresente, per tutti i gusti e dunque varia, contraddittoria e come più
gracile. Soprattutto, negli ultimi tempi, quella che dovrebbe essere la più
autorevole, che esce dalle sale della Casa Bianca. Fievole, dicono in molti,
non abbastanza presidenziale. Barack Obama è così: parla troppo e troppo
pacatamente, pensa prima di scegliere le parole, cerca di raccontare gli eventi
da più di un punto di vista e dunque lo dicono indeciso. Probabilmente c’è del
vero, ma non gli giova. Una metà dell’America non apprezza un leader che
sussurra e bilancia. Soprattutto nei momenti di estrema tensione, in faccia alla
brutta faccia del terrorismo, quello delle stragi. Naturalmente le denuncia, ma
cerca anche di spiegarle e a molti appare esitante. Non intona canzoni di
guerra. Spiega, anzi, perché la guerra, almeno in questo momento, non conviene.
È così pacato, dicono i più equanimi, anche perché, nel pieno ormai di una
campagna elettorale, lui non è candidato perché ha già vinto troppo.
Gli altri quelli
che lottano per la successione, devono farsi sentire meglio o almeno di più e
di solito ce la fanno. Ce n’è poi uno che esagera. Che, novellino alla
politica, la concepisce come una rissa verbale e ha visto finora questa sua impressione
confermata dai fatti. Donald Trump è in testa nella maratona delle “primarie”
repubblicane. Lo è nonostante “esageri”, nel tono e nella scelta della
sostanza, degli argomenti, degli slogan. Li grida, accompagna le parole con una
gran copia di gesti, vuole essere soprattutto ascoltato, che si parli di lui,
anche se male, meglio che dimenticarsene. Un elenco completo delle sue “gaffe” richiederebbe
libri dalle molte pagine, che certamente più d’uno sta scrivendo.
L’ultimo “acuto” di
questa voce dell’America è stato provocato, comprensibilmente, dall’ultima
impresa dei terroristi di qualche Califfato, in California, quasi
immediatamente successivo a quello di Parigi. Bisognava rispondere. Obama lo ha
fatto alla sua maniera analitica; lui, Trump, a modo suo, con un grido di
guerra. Lui sa, o crede di sapere, che una risposta deve essere soprattutto immediata
e robusta, contenere una novità “positiva”. E così ha tirato fuori una proposta
delle sue: i terroristi sono musulmani. Trattiamoli dunque come se i musulmani fossero
tutti terroristi: teniamoli fuori, non lasciamoli entrare in America,
mettiamoli al bando, anche turisti. Qualcuno ha applaudito, molti hanno trovato
che sia troppo e gliel’hanno cantata a chiare lettere. Di solito erano i democratici
ad alzarsi in piedi in nome dei principii e della prassi di una democrazia.
Stavolta i più arrabbiati sono i suoi concorrenti repubblicani, che temevano che
rimanere indietro nei sondaggi e nelle “primarie” e si preoccupavano dunque di
se stessi, ma ora temono che le “sparate” di Trump danneggino tutto il partito e
portino alla Casa Bianca un “altro Obama”, anche se, è peggio perché è una
donna, sposa di un ex presidente popolarissimo come Bill Clinton. E gliene
dicono di tutti i colori, rinfacciandogli voce e gesti. Il senso della
contestazione è semplice: “Quello ci rovina”. Per tanti motivi: perché dice
parolacce durante i comizi, perché spesso prima parla e poi pensa, perché reagisce
in modo sproporzionato, perché non ha paura delle gaffe, perché non guarda in
faccia a nessuno. Gli ultimi esempi: la rivista Time che ogni anno nomina “la persona dell’anno” non ha scelto lui ma
la signora Merkel. “La persona – ha detto Trump – che sta rovinando la Germania”. La decisione
di ributtare a mare i turisti o gli immigrati con Maometto nel cuore dimostrerebbe
che egli è un razzista. Come chi? Chissà perché, come Mussolini. Che di difetti
ne aveva tanti, ma non quello. Basta guardare un libro di immagini di meno di
un secolo fa e lo troviamo a cavallo di un bianco destriero che, leva nel cielo
“la spada dell’Islam”. E accusarlo di chiudere frontiere e porti dell’Italia
agli immigrati dimentica che l’Italia, a quell’epoca, era un Paese di emigranti
e non di immigrati. Quando si mette piede poi nel campo minato del razzismo, è
troppo forte la tentazione di collegarlo al dramma e alle vicende degli ebrei,
all’antisemitismo in una parola. Gliel’hanno detto in faccia. A lui, Donald
Trump, che ha appena ricevuto da Netanyahu l’invito a visitare Israele. E che
subito dopo Natale intende col premier israeliano fare una passeggiatina sulla
Spianata del Tempio.