Alberto Pasolini Zanelli
La Spagna è a un bivio. Oppure a un semaforo. Rosso, in questo caso. Ce l’ha
portata l’appuntamento elettorale di domenica, con un risultato in parte
atteso, in parte imbarazzante ma in sostanza prevedibile, accurata descrizione dei
problemi sul tappeto e sui rapporti di forza. Il risultato non è facile da
sintetizzare per “colpa” anche della legge elettorale che i rifondatori delle
democrazie iberiche hanno costruito con una cosa soprattutto in mente: assicurare
comunque una maggioranza, agevolare i cambi di potere, ma con stabilità di una
intera legislatura. È una miscela sapiente tra la proporzionale, che consente a
tutti i partiti di essere eletti alle Cortes e un premio di maggioranza che
garantisce un vincitore. È andata così per trentotto anni, dalle prime elezioni
del dopo Franco. Hanno governato i conservatori o i socialisti, ciascuno ogni volta
per un paio di legislature, disponendo comunque di tempo. Questa volta le cose
sono cambiate per motivi non tutti spagnoli e che si riassumono in due parole: Austerity
e recessione. La prima è stata gestita con coraggio dai conservatori del
Partido Popular, ma il prezzo è stato pesante, come del resto in quasi tutta
l’Europa. Il Presidente do Gobierno Mariano Rajoy, ha ottenuto risultati
migliori di molti altri colleghi, a prezzo di sacrifici ingenti anche se meglio
distribuiti che altrove ed è arrivato a queste elezioni sperando che le
prospettive buone o almeno decenti gli garantissero la rielezione.
Se avesse avuto a
che fare anche stavolta soltanto con la tradizionale opposizione socialista, ce
l’avrebbe molto probabilmente fatta, ma stavolta in Spagna ha fatto irruzione
il Nuovo articolato in due partiti innovativi anche nel nome, il Ciudadanos, accesamente
liberale e il Podemos, decisamente schierato a sinistra e anti Austerity. Parenti
ma rivali, essi hanno raccolto assieme più di un terzo dei voti, togliendo così
la maggioranza assoluta ai conservatori, pur confermati primo partito ma lasciando
per strada un terzo dei seggi e respingendo i socialisti al peggiore risultato
della loro storia in Spagna. Le Cortes contano 350 seggi, nessun partito le
controlla, per la prima volta si dovrà ricorrere a una coalizione, che potrebbe
essere difficile. Sulla carta ci sono un paio di soluzioni. I Podemos, veri
vincitori di queste elezioni, potrebbero allearsi con il Partido Popular, ma
porrebbero condizioni molto pesanti sul programma. Conservatori e socialisti
potrebbero entrare in una Grande Coalizione di stampo tedesco, ma questo
sarebbe uno schiaffo all’ansia di rinnovamento che versa dalle urne, tanto più
a causa dello stile personale di Rajoy, che è tutt’altro che morbido. Il suo
dibattito finale con il socialista Edo Sanchez, è finito in uno scontro quasi
senza precedenti. “Il primo ministro – ha detto Sanchez – deve essere una
persona decente e Lei non lo è”. Il premier uscente rivendica invece di avere
condotto una battaglia di moralizzazione. Quanto ai due partiti “nuovi”, Rajoy
ha rifiutato perfino di sedersi al tavolo con loro per un dibattito. Rajoy ha 60
anni, non pochi per i canoni spagnoli, mentre i suoi rivali sono giovani: il
socialista Sanchez ne ha 43, Iglesias 37 e Alberto Rivera, leader di Ciudadanos,
36. Ne potrebbe derivare un “patto generazionale”, anche limitato a Podemos e
Ciudadanos, i quali potrebbero “abbracciarsi” chiedendo a qualcuno tra i
“vecchi” un appoggio esterno, che potrebbe venire da sinistra, ma ciò
respingerebbe all’opposizione il primo partito di Spagna. Infine Podemos
potrebbe riesumare la formula italiana del “compromesso storico”, spaccando in
realtà il Paese in due campi di forza quasi uguali. Il suo fondatore e leader Pablo
Iglesias, sembra avere indicato la propria preferenza in tal senso, suscitando allarme
nel mondo economico, prima fra tutti la Borsa di Madrid.
Resta l’ultima possibilità:
un governo conservatore di minoranza. Sarebbe un mezzo miracolo, ma Rajoy può
sempre sperare in un aiuto soprannaturale: è nato a Santiago di Compostela, una
delle capitali mondiali del regno dei miracoli.