Alberto Pasolini Zanelli
(al di fuori delle guerre) è stato spiegato e raccontato in fretta. Quello
che è sbocciato a San Bernardino, nel cuore desertico della California. È stato
un assalto a un “centro di salute mentale”, ha fatto quattordici morti più
diciassette feriti. Non pochi in un luogo scarsamente popolato e così lontano,
almeno in teoria, dai centri in cui succedono le cose e in cui si muore come in
guerra. Le cronache potevano venire dalla Siria o perfino da uno di quei Paesi
dell’Africa Centrale dove i “massacri pazzeschi” accadono con frequenza pari a
quella del Medio Oriente ma suscitando assai meno attenzione.
È stato, quello di
San Bernardino, un “assalto di massa” a suo modo esemplare o almeno tipico:
degli sparatori attivi, delle vittime innocenti, in lacrime sotto i tavoli al
ritmo delle detonazioni a battere i tasti in e-mail disperate e i poliziotti
fuori a cercare di interrompere un’ecatombe di civili. C’erano tutti gli
ingredienti del terrore, quelli che il mondo apprende dalle trasmissioni Isis. Tranne
le reazioni delle vittime, tranne quel messaggio di una figlia al padre: “Sparano.
Aspettiamo la polizia. Prega per noi”.
Poi il post mortem e la ricerca ufficiale dei
“motivi” per quella ultima atrocità inspiegabile, la solita ricerca del perché.
Seguita con angoscia ma senza sorpresa: la settimana precedente aveva visto il
massacro di Colorado Springs con tre morti e nove feriti in una clinica per il
controllo delle nascite, con lo sparatore che spiegava anche il perché: “Mai
più pezzi di bambini”. Si riferiva alla cessione di organi, a volte, dopo gli
aborti. In una scuola di Newtown, nel Connecticut, erano state uccise ventisei
persone, tre anni fa. Quest’anno gli Stati Uniti hanno conosciuto più di un
eccidio al giorno. Compreso quello di San Bernardino, ci sono stati 462 morti e
1.314 feriti, in gran parte nelle strade più del totale dei caduti americani
nelle guerre di Corea, Vietnam, Afghanistan e Irak. Negli Stati Uniti muore a
causa di fucili o pistole una persona ogni sedici minuti.
È un grande Paese,
abitato anche da trecento milioni di armi da fuoco. A ogni eccidio si rialza la
voce sempre più affannata di chi chiede che si metta fine a questo carnaio. La
misura più drastica e in teoria più logica sarebbe semplicemente proibire alla
gente di andare a spasso con le pistole, i fucili, le armi automatiche, ma chi
ancora lo chiede, lo propone, lo invoca sa che non ce la farà e che lo fermerà
ancora una volta, presto, il blocco ideologico-commerciale in cui si mescola un
diritto ancorato nella Costituzione e un gigantesco business dei costruttori di
armi. Ci prova ogni presidente e in genere ne esce a mani vuote, ultimo
naturalmente Barack Obama. Altri più astuti o semplicemente più competenti cercano
di battere altre strade: di imitare i regolamenti al traffico automobilistico,
che non consistono nella proibizione delle auto, ma nella moltiplicazione delle
“sicurezze”, patenti, cinture di sicurezza, guardrail, un po’ come si fa
attorno alle piscine: reti, cancelli, ingressi a prova di bambini. E che si fa
con le armi giocattolo, riconoscibili dal colore. Si dovrebbe farlo, a maggior
ragione, con quelle vere. È possibile diminuire il carico di morte senza
eliminare le armi da fuoco. Come succede in Svizzera (lo ha ricordato Nicholas Kristof
sul New York Times) dove quasi tutti
gli uomini sono addestrati all’uso delle armi perché non c’è un esercito
professionale ma tutti sono tenuti a difendere eventualmente la loro patria
neutrale: si dice che la
Svizzera “non ha un esercito, è un esercito” e le armi da
fuoco sono dappertutto, ma non le adoperano quasi mai.
Gli Stati Uniti non
assomigliano alla Confederazione elvetica, dove traffico e possesso delle armi
sono strettamente controllati. In America quasi la metà possono essere
acquistate senza che si raccolgano informazioni sul nuovo proprietario. Perfino
persone il cui nome compare sulle liste dei sospetti di terrorismo hanno potuto
acquistare armi proprio negli Stati Uniti fino all’anno scorso. Magari non le
adoperano al servizio dell’Isis, ma per sfogare malumori e tensioni private. E
il governo? I democratici almeno ci provano e falliscono di fronte alla potenza
della lobby, protetta dai repubblicani per motivi ideologici. L’unico presidente
a ottenere qualche successo fu Ronald Reagan negli anni Novanta. Quando era già
in pensione.