Alberto Pasolini Zanelli
La prima, lunga fase di una delle
campagne elettorali americane più convulse e potenzialmente “rivoluzionarie” si
è conclusa con la più conservatrice fra le scelte a disposizione degli elettori
democratici, quelli che dovrebbero, in teoria o secondo la leggenda, voler
cambiare le cose, anzi “cambiare l’America”. Erano le ultime sei “primarie” e
contenevano, soprattutto in teoria, l’ultima chance di un’alternativa a una
scelta per la Casa Bianca dell’aspirante più tradizionalista, prudente e
conciliante, fedele a programmi, linguaggio e slogan che riportano indietro
addirittura di oltre vent’anni. Fu nel 1992 che l’era repubblicana di Reagan e
dei Bush si spense, il suo candidato piegato più da una coppia che da un leader.
Bill e Hillary. Il loro rapporto non aveva precedenti né aveva avuto, finora,
reali imitatori. Meglio di chiunque altro lo aveva riassunto la sposa,
riproponendosi come una “offerta speciale” da supermercato: “Se voterete per
Bill, comprerete anche me con un fortissimo sconto”. Li comprarono e si
trovarono bene: gli anni Novanta furono fra i più felici e “comodi” dell’ultima
America.
Molti “articoli” erano disponibili
a buon prezzo, il bilancio federale tornò in attivo (impresa da allora mai più
ripetuta), il vento della Distensione cominciò a soffiare anche da Est, dalle
terre del vecchio nemico. Riforme illuminate passarono l’esame del Congresso,
agevolate da una demagogia più conciliante che rabbiosa. Anche in campo
razziale: Bill Clinton fu soprannominato “il primo presidente nero”, con una
esagerazione di cui si compiacque. Hillary si propose addirittura come sposa
d’avanguardia di un coniuge moderato. Per prima propose una riforma del sistema
sanitario che fu respinta ma che anticipò l’iniziativa di Barack Obama una
ventina di anni dopo. Lei e lui conclusero un’America, non ne proposero una
nuova.
Nella loro legislazione e nella
loro retorica si trovarono ben poche tracce di una intuizione del futuro, di un
mondo che stava per cambiare e che oggi è cambiato, vorticosamente. Il vice di
Clinton, Albert Gore, si vantò di avere “inventato Intenet”. Non era vero, ma
era, a quel tempo, cosa di cui vantarsi.
Non gli bastò per succedere alla
Casa Bianca. Anzi, la sua sconfitta aprì la via al ritorno della dinastia Bush
e alle trombe di guerra come risposta all’assalto del terrorismo. Cominciarono
le “guerra umanitarie” portate avanti dai repubblicani ma approvate e così
battezzate da Hillary Clinton: in Irak, in Bosnia, più tardi in Libia poi in
Siria. Contemporanee al dilagare della “globalizzazione” e dell’Età dei Robot.
Tre novità che cambiarono davvero il mondo, anzi lo stanno cambiando a una
velocità sempre maggiore e dalle conseguenze sempre più sconvolgenti. I
repubblicani avevano esaurito le loro energie quando riemerse da una vacanza
ritenuta confortevole una Clinton: Hillary, dal momento che Bill aveva già
consumato i due quadrienni concessi dalla Costituzione. Il suo ritorno pareva
scontato. Arrivò invece la massima sorpresa: Barack Obama, col suo sogno di
un’America nuova in tutt’altro senso, che avesse ritrovato il suo idealismo e
capacità ideale. Sfidò Hillary, puntando – e fu la prima grande novità – sul
voto bianco e non su quello cui la sua pelle pareva destinarlo. L’America Nera scelse
agli inizi, nelle primarie del primavera del 2008, Hillary la bianca che dissetava
le nostalgie degli anni Sessanta. Obama si riprese gradualmente, ottenne la
nomination con esattamente il 50,1 per cento delle primarie democratiche contro
il 49,9 per cento della Clinton. Quando fu eletto la consolò nominandola
Segretario di Stato, affidandole dunque la gestione della politica estera,
spesso in contrasto con i principii idealistici del presidente. È impossibile
ridire in due parole i successi, gli insuccessi, il significato della
presidenza Obama. All’avvio del 2016 egli si presentò come la sintesi di un’era
nuova ma contrastata da cento novità: la globalizzazione che insidia o rode i
posti di lavoro in casa, i robot che rischiano di lacerare le strutture
dell’industria mondiale, il logorio accelerato del ceto medio che potrebbe
spostare anche gli equilibri politici delle più solide democrazie.
Questi i temi della campagna 2016, che
gli Stati maggiori dei due partiti prevedevano come contrassegnata dalla
stabilità ma che invece fece esplodere in ambedue i campi una contestazione con
pochi precedenti. La prima metà dell’anno elettorale portò ben presto un nome,
Donald Trump, e fece una vittima: l’establishment del Partito repubblicano,
volto a una pacata “restaurazione” e che tutto poteva prevedere tranne un
uomo-tornado. Parlando con vigore e spesso a vanvera, Trump spazzò il terreno
di gioco, eliminò tutti gli altri, da tempo è pronto ad affrontare la “finale”.
In campo democratico
l’evoluzione-rivoluzione non si lasciò indovinare agli inizi ma poi eruppe e
finalmente dominò la seconda parte del secolo. Con un protagonista totalmente
diverso da Trump, con una sfida di senso opposto, resuscitando invece delle
vibrazioni della Destra gli slogan e i vocabolari della Sinistra, resuscitando
perfino due parole incomprensibili in America: Rivoluzione e Socialismo. Scese
in campo che la partita era quasi finita. Da noi si diceva, un tempo, in “zona
Cesarini”. Pareva una comparsa, fu protagonista. Si è imposto in quasi metà
degli Stati. Pur non avendo gareggiato nelle prime “primarie” in calendario,
finì con l’imporsi in breve tempo e strappare alla Clinton quasi la metà degli
Stati. Mentre Trump veniva incoronato dai repubblicani, lui, Bernie Sanders, anziano
senatore del Vermont, piccolo paradiso di vacanze alpestri, si arrampicava sul
pennone democratico. Attaccava Hillary da sinistra, la accusava di “intimi
rapporti” (innegabili) con Wall Street, proponeva riforme egualitarie. Diceva
il contrario con un accento molto simile a quello di Trump. Arrivò a credere
che avrebbe potuto strappare la nomination alla dinastia Clinton e nonostante che
gli mancassero i voti delle minoranze razziali. I suoi erano e sono bianchi,
giovani, piuttosto colti. Non sono abbastanza, ma ci arrivò vicino. L’ultima
battaglia si è svolta martedì in California e la Clinton l’ha vinta. E adesso
la nomination è sua, quali che siano gli slogan di sfida del suo inatteso
rivale. Ormai i dadi sono tratti: gli americani dovranno scegliere tra un
“contestatore” di destra e una “conciliatrice” che viene da sinistra.
L’interrogativo oggi è uno: ci saranno più repubblicani che votano democratico
o democratici che votano repubblicano? Un interrogativo assai raro nella storia
politica Usa.