Alberto Pasolini Zanelli
Gli spagnoli hanno fatto come gli
inglesi, soltanto a rovescio. Dal referendum europeo Londra ha cavato un
risultato completamente all’opposto di quello preconizzato dai sondaggi (quelli
veri e quelli finti) e una decisione scissionista dipinta sui muri come
estremamente pericolosa, ma comunque una decisione. Madrid ha invece scelto la
prudenza, allontanato una decisione, rincuorato i partiti tradizionali dopo
l’assalto dei “grillini” locali e confermato lo stallo che negli ultimi sei
mesi aveva lasciato il Paese senza governo, tranne una gestione “tecnica” che
si riferiva a una legislatura indietro.
Almeno sul piano numerico, dunque,
è come se gli spagnoli non avessero votato. Se i partiti (i quattro che
contano, i due in questo caso che decidono) si manterranno fedeli alle
decisioni e indecisioni, ormai storiche e anche in questo caso orgogliosamente
rivendicate, le Cortes rimarranno aperte a tutto tranne che a una serie di
ministri in carica.
Ciò detto, va aggiunto che i
partiti e gli elettori di centrodestra escono, di nuovo a differenza di quelli
inglesi, più confortati nelle loro posizioni ideologiche e anche nelle loro
scelte pratiche che non i concorrenti di centrosinistra. Le cifre non sono
contestabili. Il Partido Popular si conferma il più forte di Spagna, come voti
e come seggi, aggiungendo 14 seggi ai 123 che già deteneva. Un risultato
confortante perché basato sulla resistenza alla contestazione, su una saldezza
di principii, congiunta con una disponibilità al compromesso e alla coalizione
con l’altro partito storico, il socialista, che però ha perduto consensi e
anche seggi (da 90 a 85), facendo così mancare la maggioranza assoluta a due
che non ha e non aveva alternative. Le radici del Partido Popular non sono
puramente nella destra economica bensì in una tradizione: prima che così, si
chiamava Alianza Popular, fondata all’alba della democrazia da un ex ministro
di un governo di Franco. I socialisti erano pronti a battersi ad armi pari e lo
hanno fatto due volte con successo, con Gonzales e poi con Zapatero. Questi
dati non escludono che anche in Spagna sia stata e sia forte l’ondata di
contestazione provocata dalla crisi economica mondiale e poi dall’Austerity
imposta anche alla Spagna come soluzione. Fu Madrid a conoscere le prime
dimostrazioni di piazza, in anticipo perfino su Atene, ma in qualche modo gli
scontri non furono altrettanto violenti, né le sofferenze altrettanto acute. La
Spagna non è dunque la Grecia e lo ha confermato domenica. La formazione del
governo sarà di nuovo compito lungo e difficile, anche perché tutti i partiti intendono
salvare in primo luogo la propria identità e non cedere il bastone di comando
ai “tecnici” e agli uomini di finanza. Per questo i socialisti (che hanno
conservato il fiero nome di Psoe, Partido socialista obrero – operaio –
espanol) hanno cercato e cercheranno ancora di difendere questa loro “purezza”.
Senza un compromesso Destra-Sinistra la Spagna non può avere un governo
differente. È vero che socialisti più Podemos più Ciudadanos farebbero una
maggioranza (191 seggi contro i 222 di una GrosseKoalition), ma un loro accordo
è considerato improbabile, ancora più di prima. I Ciudadanos sono una forza
politica centrista, borghese e dichiaratamente filoeuropea, mentre i Podemos
sono scivolati ulteriormente a sinistra, stringendo a fini pratici un’alleanza
elettorale con i comunisti, che hanno fornito pochi voti, ma “dipinte” le liste
con il nome di Unidos Podemos.
Dopo queste elezioni, la Spagna
assomiglia un po’ di più all’Italia e un po’ meno alla Grecia. Per niente alla
Gran Bretagna, fin troppo “decisionista”. E neppure all’Islanda, che è andata
alle urne nello stesso giorno alle stesse ore, ma ha subito eletto un
presidente. Indipendente. Con la maggioranza assoluta.