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Aleppo: massacro quotidiano, indifferenza generale



Alberto Pasolini Zanelli
Informazioni sempre più fitte, reazioni sempre più nebulose. Ma il centro delle tensioni internazionali è oggi, indiscutibilmente, più che mai la Siria. E, in Siria, la città di Aleppo, diventata una “sacca” e un mucchio di rovine insanguinate. I “bollettini” delle due parti sostanzialmente coincidono: va avanti l’offensiva dell’“esercito repubblicano”, cioè fedele al dittatore legale Bashar al-Assad con l’appoggio militare determinante di Mosca e la cooperazione di truppe iraniane e libanesi, sostenute però da Teheran. La principale città della Siria (dopo Damasco, finora saldamente in mano al Governo) è circondata e per di più divisa in due quartieri: quello riconquistato dai governativi e l’altro ancora in mano ai ribelli. Uno sguardo a una mappa rivela una somiglianza antica, con Stalingrado negli ultimi mesi del 1942.
Più difficile è disegnare l’identità dei difensori, uniti solo dall’opposizione al regime di Assad e all’appoggio americano. Dentro ci sono belligeranti di tutti i colori, compresi alcuni nuclei (non islamici) e quindi definibili come “democratici”; ma il grosso, quello che conta militarmente, si chiama come prima Nusra che fino a pochi giorni fa si riconosceva nell’ideologia e nella strategia di Al Qaida. Adesso ha cambiato nome, gesto molto probabilmente dettato dalla disperazione. Né va dimenticato che dentro la città (in entrambe le metà) vivono ancora, in modo sempre più precario, centinaia di migliaia di civili che non portano armi e forse neppure osano sperare in una pace adesso ma anelano a qualsiasi tregua, nei combattimenti e nei bombardamenti.
Le promesse in tal senso sono state numerose, ma nessuna mantenuta. Al massimo gli assedianti hanno aperto perigliose vie o vicoli, di fuga, comunque insufficienti a un progetto di evacuazione. Ci vorrebbe un armistizio di maggiore entità, sempre più difficile a causa del numero esorbitante di “eserciti”, di bandiere, di sigle, di “ideali”. Potrebbero riuscirci, forse, gli “estranei”, cioè gli Stati Uniti e la Russia, tandem resuscitato dal sepolcro della Guerra Fredda. E qualche accordo lo stipulano, anche militare, anche riguardante le azioni aree: ma la sua attuazione o non arriva mai o si sfarina in pochi giorni. Una situazione tormentosa soprattutto per l’America, che appartiene ancora a Barack Obama e alla sua costante preoccupazione di contenere i danni e i lutti dei conflitti che non riesce ad evitare. Ad Aleppo non hanno tempo di “pensare lontano”, ma mancano soltanto novanta giorni alle elezioni in Usa da cui uscirà un nuovo presidente, né l’uno né l’altro del tutto rassicuranti.
Soprattutto nell’angolo di Hillary Clinton si fanno udire sempre di più i “falchi”, che consigliano, da tempo ma ora con maggiore urgenza, di imporre e non di trattare. Riemergono nelle loro esortazioni parole e slogan vecchi di cinque anni, cioè dai giorni in cui si estese anche alla Siria la pratica, o il sogno, di una “primavera araba”, sul modello, per i più ottimisti, dell’esperimento tunisino e per i più realisti quello egiziano con le sue sanguinose contorsioni. Sullo sfondo più lontano della memoria, poi, c’erano sempre le esperienze della Libia e dell’Irak, da cui molti hanno imparato ma evidentemente non tutti.
In Siria, dunque, questo il consiglio, non resterebbe che mantenere la linea, completandola e irrigidendola. Non bisognerebbe in alcun modo rinunciare a quello che si continua a presentare come obiettivo minimo: l’uscita di scena di Assad in forma più o meno “pacifica”. Altrimenti il dittatore va cacciato con le cattive. E chi lo protegge? Il sentimento antirusso è tuttora in crescita in certi ambienti americani, in un’interpretazione della fine della Guerra Fredda in cui risuonano le tenaci esperienze di “rese senza condizioni”. Hanno funzionato in una guerra mondiale e sovente in altri conflitti, anche se non in tutti. Lo strumento preferito è come sempre l’arma aerea, che come minimo garantisce una drastica limitazione delle perdite americane e quindi un più paziente appoggio da parte dell’opinione pubblica. Ecco perché gli aerei Usa stanno bombardando, in questo momento, le postazioni Isis in Libia, nella convinzione che, presto o tardi, la ricetta funzioni.
Il problema è che in Siria la “guerra all’americana” la stanno conducendo i russi. Dalla voce del loro “alleato” (o satellite) Bashar al-Assad, quella che risuona tra i fragori delle “bombe a barile” che piovono su Aleppo, è l’ingiunzione di una resa incondizionata.