Alberto
Pasolini Zanelli
Un’ombra si leva da un angolo per
ora remoto del paesaggio elettorale americano. Un’ombra surreale ma non
inedita, che potrebbe preannunciare uno sconvolgimento totale della gara. A
guardarci meglio e a voler essere prudenti, di ombre se ne vedono anzi tre,
tutte con i lineamenti di Donald Trump. A farle emergere sono dati e cifre
delle ultime due settimane. Quelli canonici, i sondaggi. Il giorno della
chiusura della Convenzione nazionale repubblica a Cleveland il candidato appena
incoronato era in testa, sia pure di soli tre o quattro punti. Adesso, qualche
giorno dopo la chiusura della Convention democratica, egli è dietro Hillary
Clinton in misura variabile ma non controversa: dai sette ai dieci punti di
ritardo. La media è nove, meglio compatibile con i giorni rimasti alla campagna
elettorale di qui al fatidico primo martedì di novembre. Novanta giorni, nove
punti. Troppi, forse, per recuperare. Lo dicono, lo indicano le cronache, le
indicazioni sugli umori dell’elettorato ma soprattutto del mondo repubblicano.
Il suo establishment ha sempre maltollerato la candidatura di un uomo per tanti
per versi imprevedibile e assurdo. Adesso però il malumore è cresciuto fino a
traboccare. Cominciano le defezioni. Quella di un deputato di New York, Richard
Hanna, che ha definito Trump “incapace di fare il presidente”. Il senatore
Harry Reid che, nell’imminenza del rapporto che la Cia deve fare a entrambi i
candidati comunicandogli dati finora segreti, le consiglia di comunicare a
Trump “dati falsi”. Tony Schwartz, vero autore anni fa di un libro uscito a
firma di Donald Trump, ha detto di “credere sinceramente che se Trump vince e
si impadronisce del “bottone nucleare” c’è una forte possibilità che ciò
conduca alla morte della civiltà”. Un columnist
noto come Roger Cohen definisce sul New
York Times Trump uno “sociopatico”. L’andazzo si estende anche all’estero:
il presidente francese Francois Hollande ha detto che le iniziative di Trump
gli fanno “venire il vomito”. Quando si esagera a questo punto, forse, si
finisce con il giovare a una vittima di questi attacchi.
In questo caso, però, potrebbe non
essere così perché alle calunnie si sommano le gaffe di Donald Trump che sono
autentiche e plurime, soprattutto in questi giorni: la rissa televisiva con il
padre musulmano di un soldato Usa caduto in Irak che ricorda gli insulti dei
primi giorni della campagna elettorale al senatore repubblicano McCain,
prigioniero per quattro anni in Vietnam. Frasi che possono rovinare le chance
del candidato repubblicano negli Stati a forte presenza e tradizioni militari,
dalla Virginia al Colorado. Una serie impressionante di gaffe, che più ancora
che in passato, sembrano riflettere un carattere “incontinente” e delle
tentazioni autodistruttive. Trump dovrebbe sapere che, anche con il calo nei
sondaggi probabilmente dovuto al successo della Convenzione democratica di
Filadelfia, conclusa con una forzata conciliazione tra l’establishment e gli “insorti” sotto la bandiera “socialista” di
Bernie Sanders.
Non tutti i dati sono così
negativi, un’indagine della Cbs rivela che l’appoggio per Trump fra gli
elettori repubblicani è salito all’81 per cento. I dirigenti del partito, che
hanno fatto di tutto per impedire la sua candidatura, non osano adesso
“scaricarlo”, pur non riuscendo a nascondere i contrasti anche di fondo. Questo
perché i “vecchi” del partito sanno che la Clinton non è nonostante tutto
imbattibile ed è per esempio considerata “non molesta”. Un crollo di Trump
adesso metterebbe inoltre in pericolo la maggioranza repubblicana al Congresso,
quindi meglio attendere, soffrendo, anche se non proprio in silenzio.
A meno che non si addensi la terza
ombra che pare levarsi ora sul campo di battaglia elettorale. Risorge una
vecchia ipotesi: e se Trump non volesse davvero diventare presidente? Se ciò
non fosse stato mai nelle sue intenzioni? Se egli fosse conscio di non avere la
formazione adatta a prendere decisioni così importanti dalla Casa Bianca? Se
egli si fosse gettato nella mischia allo scopo principale di ricevere il
massimo di pubblicità, di notorietà, di gloria anche se contrastata, di
attenzione comunque in tutto il mondo? Egli non piangerebbe dunque di fronte
alla sconfitta. O peggio potrebbe da un giorno all’altro ritirarsi dalla gara,
tesaurizzando i frutti preziosi per il suo ego supergonfio. E lasciare che
altri si azzuffino per una poltrona sostanzialmente tanto scomoda? Quella che
visibilmente ha fatto soffrire Barack Obama.