Alberto
Pasolini Zanelli
Ha avuto la sua
foto in tutto il mondo quel bambino di Aleppo che è scampato alla morte e forse
ha la morte negli occhi ma più probabilmente ha negli occhi soprattutto
un’immensa confusione. Ed è anche in questo il simbolo vivente di una guerra così
come la sua città ne è il simbolo geografico. Un’enorme confusione in cui si
dibattono tutti coloro che, oltre al chagrin
et la pieté, provano l’impulso di “fare qualcosa” ma sentono anche la
necessità di capirci qualcosa. E non è facile, nanche se sono passati cinque
anni dal primo sparo di un conflitto che è durato già più della Prima guerra
mondiale e, sia detto per gli americani, di quella in Vietnam.
Anche le reazioni
delle ultime ore dimostrano che continua a non esserci una “strategia comune” e
neanche, ciò che è ancora più grave, una strategia ragionevole e di parte. In
America e in Occidente continua a dominare un mito coetaneo di quella guerra:
che a sparare ed uccidere siano soltanto i miliziani di una parte, i “fedeli”
del governo costituito e dittatoriale del signor Assad e magari anche dei suoi
alleati, fra cui, soprattutto oggi, gli iraniani. Gli altri, stando al coro dei
commenti ufficiosi, tirano a salve o sventolano bandiere; compresi i guerrieri
jihadisti dell’Isis (che in Siria hanno stabilito la loro capitale) e i loro
alleati rivali di Al Qaida, sotto la denominazione locale di Nusra, due
organizzazioni entrambe famose per il loro rigoroso pacifismo e orrore del
sangue. È una favola implicita, forse a fin di bene, ma comunque una favola che
contribuisce a rendere difficili o impossibili reali trattative e compromessi.
Lo torniamo a
constatare per l’ennesima volta in questi giorni con l’appello internazionale a
una tregua attorno ad Aleppo e la risposta russa che limita il “sì” a
quarantotto ore, misura quasi altrettanto surreale. Il Cremlino si dice pronto
a fare di più se ci sarà una vera trattativa che conduca a un durevole
armistizio e poi a una pace. E che dovrebbe essere condotta, secondo ogni
logica, dai contendenti, vale a dire dai gruppi “rivoluzionari” più consistenti
da una parte e dall’altra dal governo di Damasco e dunque dal
presidente-dittatore Bashar al-Assad. Proposta sdegnosamente respinta da coloro
che insistono che trattare con il dittatore sarebbe immorale e che l’unica
soluzione accettabile sarebbero, dunque, le dimissioni preventive del
dittatore, il crollo del suo regime e una conferenza di pace con la
partecipazione esclusiva dei loro nemici. La pensano così anche influenti
settori dell’opinione pubblica e del mondo politico americano, anche se non il
presidente Obama e, più concretamente, il Segretario di Stato John Kerry.
Quest’ultimo ha più esperienza di tutti nel Medio Oriente e ha contribuito più
di chiunque altro ad evitare in un paio di occasioni ancora peggiori catastrofi
internazionali, anche se non per la Siria cui peggio di così non può andare.
Il suo è un
richiamo al realismo, lo stesso che gli ha consentito di far passare il
trattato con l’Iran e gli permette oggi di mantenere aperto il dialogo con la
Russia. Più difficile oggi che quest’ultima ha portato avanti la sua
escalation, oggi più militare che politica. Ha ripreso gli attacchi aerei
affidandoli a un’arma più temibile, il Tupolev-22, già sperimentato in azioni
contro i ceceni, con venti tonnellate di bombe nel ventre e la possibilità di
sostituirle in ogni momento con testate atomiche. Le incursioni inoltre vengono
condotte ora da nuove basi russe in Iran, mirate soprattutto alle formazioni
Isis e Al Qaida, nemiche giurate del regime di Teheran. È la prima volta che
russi e iraniani conducono operazioni militari insieme e apertamente.
È anche per questo
che la battaglia per Aleppo sta diventando una svolta importante nella guerra
civile in Siria, perché mette direttamente a confronto le leadership dei due
schieramenti. Queste bombe cadono sui quartieri di Aleppo tuttora presidiati da
Nusra e da qualche suo alleato. Dal fronte siriano-iraniano-russo è il segnale
che dalla difensiva si è passati adesso all’offensiva. Nel campo dell’opposizione
gli sviluppi recenti aumentano l’influenza dei vecchi “quadri” di Al Qaida a
spese non solo delle milizie del Califfato ma anche dei più dispersi oppositori
“moderati” del regime. C’è anche un tentativo, ancora fumoso ma ambizioso di
scalzare il “governo” dell’Isis in nome del Califfo e di stabilire invece in
Siria un “emirato islamico”. Ciò non sarebbe naturalmente nell’interesse
dell’America, che deve ad Al Qaida il colpo più sanguinoso mai infertole dal
terrorismo internazionale. Dovrebbe essere un motivo di più per incamminarsi,
sia pure con prudenza, sulla via di trattative destinate a durare più di
quarantotto ore e che portino sulla strada di un qualche vero compromesso, per
quanto imperfetto. Che potrebbe consistere nella formazione di un “governo di
unità nazionale” a Damasco che comprenda anche sostenitori del regime di Assad,
prima o poi senza di lui. Non c’è niente di eroico in questa soluzione, ma di
umanitario sì. Magari perseguita tenendo sul tavolo una dei milioni di
fotografie di quel bambino di Aleppo.