Alberto
Pasolini Zanelli
Spesso durano poco
le buone notizie che vengono da vicino. E la Libia è vicinissima, dalla Sicilia
ci si va in barca, agli aerei militari di base a Sigonella occorrono meno di
venti minuti per un viaggio a Sirte e ritorno. L’ultima buona notizia è durata
poche ore, anche se era importante, perfino esaltante: la batosta della base
Isis a Sirte, la sua semidistruzione; un Bollettino della Vittoria subito
seguito a uno scambio di congratulazioni fra il governo di Tripoli e i suoi
alleati. Se non che poche ore dopo è arrivata la risposta: la sconfessione di
quel governo da parte del Parlamento libico. Chiamiamolo così, anche se opera,
e in questo caso ha votato, a una notevole distanza da Tripoli, in quella
Tobruk che è molto più vicina al confine con l’Egitto. Il tono è piuttosto
corrusco, tanto da indurre il primo ministro Fayez al Serraj a “rifugiarsi” in
Tunisia. Una brutta sorpresa.
Ma più brutta che
sorpresa, perché quel governo gode sì la fiducia o almeno le simpatie dell’Occidente,
ma non quelle della maggioranza che sarebbe richiesta, quella dei libici. E
infatti sul terreno non è finora cambiato niente. Il Paese continua ad essere
in mano alle “milizie” (quell’Isis è solo una delle tante), a Tripoli sta tornando
il grande disordine abituale. Se c’è un Uomo Forte che si è irrobustito
ulteriormente, è il generale Khalifa Haftar, ministro della Difesa di
quell’altro governo, quello di Tobruk e dunque della Cirenaica apertamente e
saldamente sostenuto da quello egiziano.
La situazione,
dunque, riprende a complicarsi, come se avesse mai smesso. Il Paese è spaccato
in due da almeno un anno e mezzo. Tripoli e Tobruk continuano nella loro
“guerra strisciante” senza segni che uno dei belligeranti si avvicini alla
vittoria. Tripoli ha dalla sua il “riconoscimento internazionale”, cioè
americano ed europeo anche nella versione militare. Tobruk dispone di quello
che appare come il vero uomo forte e dell’appoggio di alcuni governi più o meno
islamici. È più probabile, insomma, che Haftar un giorno decida di marciare su
Tripoli che non al Serraj di prendere la via di Tobruk.
Non dipende
soltanto dalle qualità militari e dall’appoggio politico dell’uno e dell’altro.
Semmai dal fatto che quelli di Tripoli aspirano ad assorbire la Libia orientale
mentre quelli di Tobruk o di Bengasi si accontentano di tenere quello che
hanno. E dalla loro hanno diverse cose, fra cui il petrolio e la Storia. La terra
in questione è antica, gloriosa ma quello che le manca è un passato unitario. Non
lo è mai stata neanche nel nome. A parlare di Libia sono stati quasi
esclusivamente gli italiani, nelle due occasioni in cui l’hanno dominata. Prima
c’erano la Cirenaica greca e l’Ovest cartaginese. La frontiera fu stabilita,
secondo la leggenda, dall’incrocio di due maratone: due coppie di atleti
partite una da Est, una da Ovest; dove si fossero incontrate lì sarebbe sorto
il sacro confine fra due Patrie. Quelli che vinsero erano i fratelli Fileni,
che morirono di eroica fatica ma spinsero avanti la frontiera. Poi arrivarono i
Romani, che le inglobarono entrambe. Al crollo della loro potenza, una nuova
divisione, infine sotto il manto dell’Impero ottomano.
Di Libia non si
parlava. Resuscitò a seguito di un’operazione di prestigio avviata da Giolitti
nel 1911, a nome di un’Italia che aveva da poco ritrovato la sua unità. Si
cantava “Tripoli bel suol d’amore”. Ma l’entusiasmo non era proprio unanime.
Plaudiva all’impresa un pacifista come Giovanni Pascoli, inneggiando alla
“grande proletaria”, ma si opponeva un socialista già conosciuto come Benito
Mussolini, autore di un monito: “Né un soldo né un soldato per la guerra
imperialista”. Poi, diventato il Duce, si trovò in mano Tripolitania e
Cirenaica e non resisté alla tentazione imperiale e romana di chiamarla Libia.
Fece costruire fra l’altro un monumento ai fratelli Fileni e andò a inaugurarlo
personalmente. Sconfitta nella Seconda guerra mondiale, l’Italia sparì
lasciandosi dietro quel nome, ma i libici continuarono a sentirsi e ad essere
divisi, tenuti insieme soltanto dalla dittatura di Gheddafi. Che non lasciò
eredi, ma un vuoto che ogni tanto qualcuno cerca di riempire. Adesso tocca
forse a Khalifa Haftar. Se ce la facesse diventerebbe un dittatore e “unirebbe”
una terra che in realtà non ne sente il bisogno. Forse la soluzione accettabile
sarebbe quella di lasciare che di “Libie” tornassero ad essercene due. Ma l’“ortodossia”
moderna e democratica finora non lo ha accettato.