Alberto Pasolini Zanelli
Le regole delle campagne elettorali
Usa prevedono che prima o poi i contendenti si affrontano in uno o più pubblici
dibattiti, in cui dovrebbero confrontare le idee e i programmi rispettivi, fare
chiarezza sui possibili equivoci e finire con una stretta di mano e un “vinca
il migliore”. Un “regolamento” che è molto difficile immaginare applicato a un
dibattito fra Donald Trump e Hillary Clinton e dunque rispettato da entrambi. Fino
a questo momento i due aspiranti alla Casa Bianca si sono “sparati” con
tecniche differenti ma conseguenze pressoché identiche. Trump ha fatto il
Trump. Ha seguito cioè i propri intuiti, soprattutto i peggiori, quelli che
concepiscono una discussione come uno scambio di ingiurie e l’esposizione dei
programmi come un fuoco d’artificio con frasi buttate là con fiero cipiglio,
condite spesso con una delicatezza, soprattutto quando l’avversaria è una
donna, che un tempo si definiva “da osteria”. Insomma, lui è un po’ “rozzo”.
Lei invece è perfida. Invece di epiteti, scocca accuse, senza arretrare di
fronte ad alcun limite. I duellanti per la presidenza se ne sono dette di tutte
in più di due secoli di Usa; ma non era mai capitato che un candidato alla Casa
Bianca venisse presentato dal concorrente come un “servo di Mosca”. Hillary non
ha detto finora proprio così, ma il senso è quello. Trump, che si è lasciato
andare dalla sua sregolatezza al punto di plaudire alle “rivelazioni” sulla
Clinton “rubate” in documenti segreti da qualcuno che potrebbe essere russo, viene
accusato adesso non soltanto di incoraggiare Putin ad estendere il proprio
monitoraggio ad altre rivelazioni del genere, ma anche di averlo fatto non per
una dubbia convenienza elettorale ma per favorire così i propri “interessi
privati sul mercato immobiliare russo e forse anche sul petrolio”, promettendo
in cambio di favorire gli interessi strategici di Mosca e particolarmente di
“lasciare spazio a Putin nel Medio Oriente”. È improbabile, non escluso, che
ciò accada; ma finora non ci sono prove che sia accaduto.
Le intercettazioni sono reali, i
loro autori le riconoscono e se ne vantano, i precedenti esistono e anzi
abbondano in conseguenza dei progressi della tecnologia. Non c’è bisogno, pare,
di essere dei geni per poter spiare quello che si dicono gli altri, soprattutto
sulle “onde” elettroniche, soprattutto in America, dove si vota anche così in
luogo della vecchia scheda da infilare nell’urna. Le autorità, naturalmente,
indagano e non devono trapassare muri di silenzio, bensì difendersi dall’abbondanza
delle “onde”. Lo ha detto anche James Clapper, capo dei servizi segreti Usa.
L’Fbi fatica a trovare differenze fra queste “indiscrezioni” e quelle usate
dagli americani, per esempio, nello “scrutare” i messaggi privati di Angela
Merkel. Per stare sul sicuro, intanto, i propagandisti democratici avanzano
un’altra “ipotesi”: Trump agirebbe così perché sarebbe “afflitto da demenza
senile”. Pare lo sia stato già suo padre. Dunque…
È in corso, insomma, un
bombardamento a tappeto. Il loquace e intemperante candidato repubblicano viene
paragonato quotidianamente a Mussolini, qualche volta a Hitler, più
propriamente a George Wallace, democratico razzista degli anni Sessanta, a
Charles Lindbergh, fondatore dell’“America First” neutralista degli anni
Trenta, a Douglas McArthur, ma anche a Teddy Roosevelt, quello che raccomandava
di “parlare piano e tenere in mano un bastone grosso”. Trump, ecco, non parla
piano, anche come volume di voce, ma soprattutto come scelta di epiteti, si
farebbe udire e capire in una taverna affollata di “blue collars”, con un paio
di whiskey in corpo e molta, molta rabbia per il declino del ceto medio
nell’economia americana per colpa delle globalizzazioni e robotizzazioni.
L’unico a cercare di tracciare un ritratto critico ma elegante è Jeb Bush, che
definisce le scelte del suo ex rivale come “riflesso di un trend profondo in un
Paese minacciato e corroso da diseguaglianze economiche, polarizzazione
partigiana e una recessione traumatica, che conduce a un “conservatorismo da
fortezza assediata”. Dalle fortezze assediate si spara e le si bombarda “a
tappeto”.