Alberto
Pasolini Zanelli
Il mondo non si è
ancora levato dagli occhi quel bambino siriano scampato alla morte e già ci è
entrato nelle orecchie un altro bambino, quello che ha portato la morte. Alla
vittima viva è succeduto sul palcoscenico il portatore di strage, primo fra i
morti. A distanza di pochi giorni e anche di pochi chilometri. Quello che
chiamano kamikaze (ma sarebbe ora di rinunciare a questa denominazione
impropria e ingiuriosa per la memoria dei veri kamikaze, piloti suicidi su
obiettivi militari e dunque niente affatto terroristi), cui hanno fatto
indossare quel panciotto di dinamite che ha fatto a brani altre cinquanta
persone oltre a lui, è vissuto ed è esploso in un posto della Turchia a minima
distanza dalla Siria. Apparteneva quasi certamente a un’etnia, quella curda, che
è sparsa come minoranza senza patria in entrambi i Paesi oltre che in Irak e in
Iran. Sono da un secolo le vittime di una riscrittura della carta geografica
sbagliata e incosciente da parte dei vincitori della Prima guerra mondiale e
affossatori, fra le tante altre cose, dell’Impero Ottomano. La Turchia, che gli
è succeduta, non viene spesso catalogata fra le terre coinvolte nella crisi e
nei conflitti del Medio Oriente, ma ne è storicamente e geograficamente parte. È
un Paese della Nato, è stato come tale coinvolto nella Guerra Fredda, ha
un’antica rivalità con la Russia, ma per il resto è legata, dalla geografia e dalla
religione al Medio Oriente, al mondo islamico che oggi fa tremare il resto del
mondo. I curdi hanno motivi propri, antichi rancori, legittime aspirazioni ad
avere una patria ed è surreale pensare che si possa un giorno “risistemare” con
una certa equità quell’area del mondo senza risolvere almeno in parte il loro
problema che si chiama patria.
Siamo più
informati del solito, in queste settimane, sugli sviluppi di questa contesa. Da
vari fronti. I peshmerga curdi sono tra
le fazioni militarmente più forti nelle confuse e sanguinose guerre civili in
Irak e in Siria e sono attivi anche in Turchia, prevalentemente ma non solo con
strumenti pacifici o almeno politici ed elettorali. Sono però anche bersaglio
nelle repressioni del regime di Ankara, soprattutto da quando Erdogan ha colto
l’occasione del fallito golpe, dato e non concesso che egli sia stato
l’istigatore, per inasprire la repressione e l’emarginazione di questa
importante minoranza etnica nello Stato che egli regge. Secondo ogni apparenza
e ogni logica (ammesso quest’ultima sia applicabile in quel contesto e in
quella geografia) il regime turco non dovrebbe entrarci con l’ultima strage.
Circostanze, geografia, metodi richiamano tutti una responsabilità dell’Isis,
che potrebbe avere cercato fra dei civili curdi una vendetta per le sconfitte
così spesso ormai subite dai peshmerga
sui campi di battaglia. Ma l’aver colpito in Turchia e non al di qua della
frontiera così prossima con la Siria, fa supporre che ci sia anche un
“messaggio” al governo, o al dittatore, di Ankara, colpevole agli occhi dei
jihadisti di avere ripreso almeno un abbozzo di dialogo con la Russia, oggi
principale nemico militare del Califfato. Erdogan non può non sentirne il
bisogno se è vero che è impegnato, ossia in questo facilitato dalla situazione
del dopo golpe, in un tentativo di trattenere il Paese che potrebbe essere
sull’orlo del caos. In base all’antica e fondatissima massima che “il nemico
del mio nemico è mio amico” Erdogan può essere tentato di capovolgere certe
posizioni, a cominciare dalla ripresa dei colloqui con Putin, fino a ieri
massimo nemico e oggi forse trasformabile in un partner. Non certo a buon
mercato perché l’uomo del Cremlino difficilmente fa regali, soprattutto in
questa fase del suo sforzo di ricostruzione del ruolo di grande potenza (anche
se non più Superpotenza) della Russia. Che ha problemi gravi e acuti con molti
Paesi del Medio Oriente ma non ne ha avuti mai con i curdi, cui potrebbe anche
stendere una mano. Se li trova già alleati nelle operazioni militari in Siria
contro l’Isis e l’altra formazione militare jihadista Nusra, affiliata ad Al
Qaida. Può essere dunque davvero stata una rappresaglia degli integralisti
contro un popolo musulmano ma schierato dall’altra parte. Ma l’ultima strage
potrebbe anche essere stata un “messaggio” alla Turchia. Può avere avuto,
insomma, più di un destinatario il “monito” cucito nel gilet dell’ennesimo
bambino martire. Quello ridotto a brandelli e di cui non abbiamo dunque un
ritratto. Ma che pure è fratello maggiore di quello scampato alle bombe che
cadono dal cielo su Aleppo.