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Le donne di Trump



Alberto Pasolini Zanelli
Le donne non gli vogliono più bene. L’assonanza viene spontanea a un italiano con un po’ di memoria per l’ultimo, malinconico canto dei fedelissimi di Salò; ma è dubbio che sia appropriata. Per cominciare a Donald Trump le donne americane non hanno mai voluto molto bene. Per un complesso di motivi. A cominciare dal fattore “sorellanza” con la sua avversaria nella corsa per la Casa Bianca. Hillary Clinton non ha mai fatto finta di dimenticare l’appello alla solidarietà di quello che una volta si chiamava gentilsesso. Lei conta su una somma vincente di tre “blocchi”: i neri, i latini, le donne. Sommati essi dovrebbero fare una maggioranza, soprattutto contro Trump la cui forza elettorale è concentrata sugli uomini bianchi giovani, del ceto medio e dei salariati. Per le sue “sorelle”, Hillary ha poi trovato una formula di intimità suggestiva: “Io sono figlia di una madre e madre di una figlia”. Una constatazione ovvia ma incontestabile e di felice risonanza.
Neanche quella però basterebbe ad assicurarne l’ascesa alla presidenza se l’avversario non avesse accumulato in questi mesi di campagna elettorale le gaffe destinate a respingere l’elettorato femminile, proprio perché basato ed espresso in un gergo molto simile a quello dei maschi non molto educati e che include pesanti accenni sessuali. Uniti a un vocabolario in altri modi giudicato di una “mascolinità” aggressiva, l’ultimo esempio del quale è l’invito ai proprietari di armi da fuoco a difendersi dal “pericolo Hillary” che potrebbe proporre al Congresso una limitazione del diritto ad andare a spasso con la pistola in tasca. “Difendete le vostre armi, adoperandole: servitevene, intanto, per votare”. Non voleva dire, naturalmente, di sparare alla signora. Era solo uno scherzo ma suona male, si presta ad essere sfruttato dalla campagna democratica come un “incoraggiamento ad uccidere coloro con cui non si va d’accordo”. Qualcuno addirittura azzarda un paragone con la sorte di un leader israeliano, Rabin, che fu assassinato da un fanatico dopo che era stato oggetto di pesanti accuse da oratori di estrema destra. Naturalmente quello di Trump era uno scherzo; ma in uno stile che lo definisce e che tanti americani non gradiscono. Soprattutto le donne. Anche quelle repubblicane. Sono loro che, a quanto pare, “non gli vogliono più bene”.
Lo indicano sondaggi recenti. Disposte a votare per lui sarebbero ora solo 72 su cento. Sembra molto, ma va paragonato con i precedenti candidati. John Mccain otto anni fa fu votato dall’89 per cento, Mitt Romney ebbe quattro anni fa il 43 per cento delle donne repubblicane, come perfino George W. Bush. Dal giorno della Convention repubblicana il margine di Trump sulla Clinton è calato del 13 per cento. Fra le donne nel loro complesso, poi, Trump sembra attrarne solo il 26 per contro il 58 per Hillary.
Ciò che però, almeno per ora, non basta a dare per scontata la sua vittoria. Perché anche la candidata democratica ha i suoi problemi. È la meno popolare fra gli esponenti del suo partito che in altre occasioni hanno gareggiato per la Casa Bianca, così come Trump è il meno popolare fra i suoi predecessori repubblicani. I suoi problemi sono differenti. Nessuno l’accusa di istinti violenti o di volgarità nel linguaggio. Il suo tallone d’Achille è l’onestà in particolare la fame di denaro. Hillary ha incassato finora più di 21 milioni di dollari come compenso per una serie di discorsi a vantaggio di gruppi finanziari, particolarmente delle grandi banche, secondo analisi e somme condotte da un istituto rispettato come quello di Bllomberg. Accentuano il linguaggio e sostengono che queste cifre tolgono credibilità alle sue promesse in stile populista di Wall Street da presidente.
Il duello per la Casa Bianca, insomma, si svolge quest’anno fa due “disamati”. Come conseguenza emerge la richiesta per candidati alternativi. Ce ne sono già pronti due. Una tendente a sinistra, la ecologista Jil Stein e uno ancorato a destra, Gary Johnson, che risolleva la bandiera del movimento libertario, il cui leader tradizionale Rand Paul si è ritirato da tempo dalla gara di quest’anno. Johnson, ex governatore del New Mexico, è già salito al di sopra del 7 per cento, più che abbastanza per “dissanguare” Trump in Stati tradizionalmente conservatori. La Stein è ferma a poco più del 3 per cento, ma “ruberebbe” voti a sinistra, come un suo predecessore, Ralph Nader, fece nel 2000 ai danni di Al Gore, consentendo così la vittoria di George W. Bush. Potrebbero rivolgersi a lui parte degli entusiasti sostenitori di Bernie Sanders. Quelli che dicono: “Non possiamo votare assolutamente per la Clinton, perché è disonesta”. I candidati del “terzo partito” (o del quarto) perdono però tradizionalmente terreno quando ci si avvicina al giorno delle elezioni. Di qui a novembre hanno tempo per calare per crescere.