Translate

La guerra continua


Alberto Pasolini Zanelli

Non è stata la prima battaglia ma neppure l’ultima. Donald Trump non è stato condannato, ma tanto meno è stato assolto. La guerra continua e con questa le sue conseguenze politiche. Sono arrivate le prime sentenze, equamente divise: otto condannati e otto assolti. Dal momento che gli imputati in questo processo erano due, evidentemente le accuse erano almeno sedici. Nessuna di queste ha visto il presidente degli Stati Uniti sul banco degli imputati, però tutti i “colpevoli” lavoravano per lui. Sul piano morale e politico Donald Trump è sconfitto, magari non per tutti i sedici capi d’accusa: qualcuno verrà assolto in appello e forse qualcun altro condannato in seconda istanza, ma quello che non accadrà, almeno per ora, sono le dimissioni dell’inquilino della Casa Bianca. Tutti i capi di accusa si riferivano in qualche modo a dei reati o almeno a delle illegalità commesse da dei diretti collaboratori di Trump per delle vicende che hanno visto Trump protagonista e, mettendo assieme i fatti e le accuse non provate, sono una chiara sconfitta politica per il presidente.

La “guerra”, però – è necessario ripeterlo -, non è finita. Anzi, non è ancora cominciata perché il presidente non si è ancora seduto sul banco degli accusati ed è possibile perfino che egli non vi compaia mai e continui ad abitare alla Casa Bianca. In questo, come sotto altri aspetti, il paragone che viene spontaneo, cioè quello con il “predecessore” Richard Nixon, lascia aperte divergenze in molti sensi. Il più importante dei quali, anche perché praticamente unico, riguarda naturalmente la condanna di Nixon, che non arrivò davanti a un tribunale perché lasciò la carica, sommerso non da un normale processo bensì da un voto molto più risonante, che si chiama impeachment e da una giuria ad hoc che era la Camera. I deputati lo dichiararono colpevole e aprirono la via a un secondo verdetto. Nixon avrebbe potuto ancora essere assolto, ma probabilmente condannato e in questo caso sarebbe stato obbligato a dimettersi e dire addio alla Casa Bianca. Se ciò non è successo è perché Nixon preferì dimettersi senza affrontare un processo, che fu essenzialmente politico.

Diverso è il caso di Trump. Che non è comparso davanti a nessun “tribunale speciale” e quindi non è stato dichiarato colpevole di niente. Però quelli che sono comparsi sui banchi degli imputati, oltre a tutto in due processi diversi e separati, hanno affrontato accuse che non riguardavano direttamente nessuna decisione della Casa Bianca bensì reati ufficialmente comuni, da evasioni fiscali a pagamenti illegali per quelli che una volta si riferivano a “donne dai facili costumi”. Trump è sotto accusa anche per i secondi, ma solo sul piano morale e non giuridico. Infatti non è stato né condannato né processato, ma la sconfitta morale che egli ha subito è in sé addirittura più grave di quello che ai suoi tempi costò la Casa Bianca a Nixon, trattandosi di gesti illegali ma tutti dovuti a reati giudiziari, uno dei quali, Michael Cohen, che era l’avvocato di Trump, potrà subire a breve una sentenza di cinque anni di carcere. L’altro, Paul Manafort, ha un “pacchetto” di reati parte dei quali di natura politica che riguardano soprattutto iniziative illegali nei confronti della Russia e quindi più seguite dall’opinione pubblica, a cominciare dai difensori.

Trump ha continuato a difendere i suoi due collaboratori (che sono i primi, il turno degli altri verrà più avanti), a cominciare da Manafort, che il presidente ha definito, dopo la sentenza, “una brava persona”. Per il momento, dunque, non dovrebbe succedere nulla al di là delle reazioni dell’opinione pubblica, che era già radicalmente divisa prima dell’apertura del primo processo e che difficilmente si raggrupperà in seguito delle altre fasi penali. Il giudizio continuerà però ad essere, come prima, prevalentemente politico. Il processo arriverà a una sentenza in aula. Per ora si parla di conseguenze anche elettorali, perché per Senato e Camera si andrà alle urne il primo martedì di novembre. C’è tempo fino ad allora, dunque, perché eventualmente emerga il cognome dell’uomo politico cui spetta l’eredità di Trump e che finora lo ha difeso al cento per cento, il vicepresidente Mike Pence, un repubblicano conservatore molto religioso e fedelissimo del suo leader anche in un frangente molto delicato.