Alberto
Pasolini Zanelli
La scomparsa di
Kofi Annan è accaduta, forse, nel “momento giusto”, cioè mentre i problemi
della pace internazionale si stanno trasformando, in una versione moderna
quanto difficile, da una abilità nel mettere in riga le parole puntando sempre
su compromessi che ribadiscano da un lato i principii e dall’altro li
“impastino” con gli interessi, spesso complessi delle grandi potenze e le
opportunità di ricoprire i bisogni, spesso frustrati, dei Paesi piccoli che
dovrebbero essere i protagonisti. Kofi Annan ci ha lasciato in un momento in
cui il volto del mondo si stava velocemente modificando e i diplomatici “di
professione” si trovano di fronte a Nazioni Unite più disunite che mai.
Nell’indispensabile rispetto delle forme ma in una crescente necessità di
dichiarare i fini senza confonderli come in molti casi sarebbe opportuno.
I sette anni di
Kofi Annan si possono così riassumere in una serie di contrasti con il Paese
che non solo è il più potente nei saloni delle Nazioni Unite ma anche più
tormentato dalla necessità di salvare il linguaggio dell’Onu e anche del premio
Nobel, salvando quando è proprio necessario la opportuna lucidità e nel
frattempo adeguando sempre più il proprio vocabolario ai rapporti di forza. Non
sempre, o meglio non più sempre. La storia dell’Onu in particolare assomiglia
in complesso sempre di più alla vera Storia, compito necessario quanto
difficile al cospetto di rapporti internazionali e necessità interne che
assomigliano forse perfino di più alla opportunità e necessità formali contemporanee
all’abitudine storica di trovare formule a due volti: i più “flessibili” fra
coloro che dovrebbero essere i leader mondiali e la necessità di mantenere in
piedi anche oggi una struttura che è finora sopravvissuta. Ostacolata dal fatto
che l’obiettivo di mantenere un linguaggio simile a quello delle trattative il
più possibile bilaterali perché concrete in un momento in cui le alleanze si
incrinano, anche quelle fra le nazioni fondatrici con il loro codice di
accettazione e rapporti di forza.
Uno degli
obiettivi immediati è quello esposto dal successore di Kofi Annan, il
portoghese Antonio Gutterres, in una formula fra le più nobili: “Una forza di
guida per il Bene con uno spazio sempre per il dialogo”. Qualcuno ha scoperto
un benevolo e anche arguto gioco di parole per registrare il suo “dovere” di
aggiustare più volte le relazioni con gli Stati Uniti tuttora dominanti anche
con formule che in modi diversi avevano identificato il Segretario dell’Onu con
un “Segretario generale accidentale”. Uno dei predecessori di Kofi Annan, il
diplomatico egiziano Boutros Ghali, costruì ottimi rapporti con la presidenza
Clinton ma incoraggiò l’America a decisioni avventurose. Kofi Annan, pur
incitato alle scelte più “aperte”, era riuscito a risolvere pacificamente ma
francamente qualche problema, ma non il drammatico confronto nei Balcani, in
particolare il massacro di Srebrenica: “Dobbiamo continuare così nella risposta
agli orrori sempre più crudeli dell’ultimo quadriennio e io non so se abbiamo
fatto abbastanza”. Più convinto il defunto Segretario ha seguito senza riuscire
a frenarle le decisioni delle “grandi potenze” che portarono alla
defenestrazione e all’assassinio di Gheddafi sette anni fa. Quando fu insignito
del Nobel per la pace, Annan ne definì i doveri e gli ostacoli di una
“organizzazione che sta diventando qualcosa di più di quanto permettano i suoi
membri, in una misura che non può diventare un segretariato delle singole
potenze”. L’esempio più chiaro di tale contrasto tuttora in corso è la seconda
guerra irachena, giustificata con la presenza di “armi di distruzione di massa”
mai esistite con la complicità nella scelta di ritirare per motivi umanitari
l’appoggio di Paesi come il Cile e il Messico e con la lettera inviata da Tony Blair
e il suo ministro degli Esteri con la raccomandazione di non attaccare la
“città santa” di Falluja. Consiglio non accolto ma non per questo inutile in
fasi successive di altre guerre più o meno irregolari e misure economiche ai
presunti responsabili con conseguenze di povertà e di fame. Così Kofi Annan
trovò il coraggio di definirle. È nell’interesse di tutti che il suo successore
abbia cominciato bene.