Alberto
Pasolini Zanelli
Se il Senato
degli Stati Uniti fosse quello che la classe politica americana proprio non
vuole che sia, sarebbe una specie di tempio non solo della democrazia come
sistema che funziona ma come un suo museo, in qualche modo paragonabile a
quello dell’antica Roma e della sua sigla, Spqr, che descriveva l’equivalente
dei suoi capitoli urbani: Senatus PopulusQue Romanus. Con i suoi statisti, i
suoi demagoghi, i suoi eroi e i suoi simboli. Trasferite tutto questo a
Washington e avrete in prima fila l’ombra di John McCain, un uomo che le ha
provate tutte, nella buona e nella cattiva fortuna, idealista e patriota e
pronto alle battaglie di idee e di persone con i suoi colleghi. Le ha vissute
tutte, davvero. Era figlio di un ammiraglio e nipote di un altro, ma non ha mai
fatto il marinaio. Ha scelto subito l’aviazione, anche se la sua nascita
coincideva pressappoco con l’invenzione dell’Aviazione di Marina. Ha cominciato
subito a fare il soldato e a prendere rischi nelle zone più lontane della
Terra. Aveva idee politiche ma, almeno in una prima fase, le metteva in secondo
piano e parlava dell’America proprio come i senatori eroi di quell’antico
impero.
Capitò ben
presto in Vietnam, una guerra che doveva essere soprattutto un simbolo delle
garanzie mondiali americane per la democrazia ma che, invece che in un blitz,
si trovò ben presto in una di quelle guerre che non finiscono mai. Lui saliva
quasi ogni giorno sulla sua “nave” e andava a bombardare il nemico, in gran
parte costituito da guerriglieri. Le perdite aeree Usa erano relativamente
poche, ma una capitò a lui. Il suo aereo si fracassò, si incendiò, lui cadde in
mare e fu sul punto di morire arso. Lo salvarono i vietnamiti, orgogliosi di
aver messo le mani sull’equivalente di un generale e figlio di un ammiraglio.
Era gravissimo, gli salvarono la vita e al più presto lo trasferirono
dall’ospedale al carcere. Era una preda di lusso, ma soprattutto poteva
trasformarsi in simbolo: raccontare al nemico i segreti o almeno le pagine più
confuse della macchina di guerra Usa. Cercarono di convincerlo, lui
orgogliosamente si negò, passarono alla tortura. Gli esperti psicologici del
governo comunista di Hanoi scrissero la sua “autoaccusa” e ricorsero ai
peggiori metodi per convincerlo a metterci la firma. Il prigioniero rischiò la
pelle in carcere più che nei cieli. Il suo “dibattito” durò dai tre ai quattro
anni e finì con un trionfo morale per McCain nipote e per papà e nonno
comandanti. Il torturato se la cavò con la vita e qualche firmetta su vicende
particolari e secondarie.
La sua prigionia
finì contemporaneamente alla guerra, il cui esito fu opposto a quello previsto:
fra Hanoi e Saigon (l’altra capitale vietnamita) si arrivò a un armistizio e
alla liberazione dei prigionieri. McCain fu fra i primi ad approdare a
Washington, accolto di persona da Richard Nixon, il presidente che stava per
pagare con uno scandalo e l’impeachment
la mancata vittoria. E McCain, disceso dall’aereo zoppicante tramite i resti di
una gamba e quindi inabile alle battaglie, si trasferì nella politica ed entrò
nel Senato, avendo scelto un collegio elettorale dell’Arizona, quello che era
stato di Barry Goldwater, leader ideologico della destra americana. Erano
entrambi repubblicani, ma McCain ereditò soprattutto il leader della guerra e
della politica come doveri e simboli. Apparteneva alla Destra del partito di
Destra, ma era soprattutto un leader morale, pronto a rompere con le strutture
di partito ogni qualvolta erano in gioco dei Principii.
Non era un
estremista, al punto che fu tra i primi leader Usa a passare con l’ex nemico ed
ex torturatore ed amico futuro e neanche in troppo tempo, con un avversario che
era stato il principale alleato bellico del regime di Hanoi. McCain ogni tanto
si faceva una vacanzina in Vietnam, da cui portava a casa frutti per il futuro
dei due Paesi ex nemici. Non tutti i colleghi lo amavano (anche se tutti lo
altamente rispettavano) e così egli divenne una voce critica nel suo partito e uno
dei più rispettati e credibili dei proposti alla Casa Bianca, sospinto da
sostenitori meno entusiasti di lui. Continuò a dare buoni esempi per cause non
sempre popolari. Fu lui, ad esempio e praticamente solo, a difendere Khizr
Khan, il padre musulmano di un eroe di guerra americano. Arrivò più volte alla
soglia della Casa Bianca: da “quasi-candidato” al gradino più alto: la
candidatura contro Barack Obama, il democratico nero. Come tutti sanno, Obama
vinse, ma con il 53 per cento del voto popolare contro il 46 per cento di
McCain. “Che fosse coraggioso lo sapevamo, ma non che lo estendesse a questo
tipo di battaglia”.
Quando ai
democratici succedette un repubblicano ispido e scomodo come Donald Trump, si
trovò McCain come leader morale dell’opposizione, con diversi “scambi di
opinione” piuttosto drastici. L’attuale inquilino della Casa Bianca mise in
dubbio che McCain fosse stato un eroe, neanche sotto la tortura.
Quando le
“ferite” di guerra e di tortura si sommarono alle conseguenze dell’età, McCain
fu obbligato di nuovo a dare fondo alle sue energie e a fare la spola fra la
capitale e gli ospedali in chiamate sempre più di urgenza. L’ormai vecchio guerriero
si convinse all’addio alle armi l’ultima sera prima dell’addio alla vita.