Derive estremiste: il voto in Usa e la funzione di garanzia dei partiti
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 25 ottobre 2020
Fra soli nove giorni si svolgeranno le elezioni americane, la più importante sfida democratica del nostro pianeta. Una sfida che avviene dopo un lungo periodo di tempo nel quale l’efficacia e le regole stesse della democrazia sono state messe in crisi ovunque, non solo da parte degli stati totalitari.
Le democrazie, infatti, non muoiono più di colpi di stato, ma vivono in una fase di generale ritirata. Non per una specifica azione di Putin o di Xi Jinping, ma per un progressivo indebolimento delle loro stesse istituzioni. Un indebolimento aiutato spesso dai parlamenti, dai vecchi e nuovi media e dalla fragilità dei corpi intermedi, tradizionalmente dedicati a equilibrare il funzionamento della democrazia.
Spesso, proprio coloro che si trovano al vertice di un sistema democratico, usano le sue istituzioni per indebolirlo. Un arretramento sempre più descritto dagli studiosi (penso ad esempio al libro di Levitsky e Ziblatt, pubblicato in Italiano da Laterza) e sempre più messo in pratica in un crescente numero di paesi.
Molteplici e diversi sono i segnali di questo arretramento.
Il primo è quello di rigettare o limitare le regole del gioco democratico non accettando i risultati delle elezioni politiche, oppure organizzando l’opinione pubblica per screditarle. A questo si accompagna l’attacco continuo, diretto e brutale nei confronti degli avversari, mettendo in dubbio la loro stessa legittimità, in quanto presunti agenti di potenze straniere o ipotetici criminali inadeguati a partecipare al gioco politico.
A ciò si aggiunge il progressivo screditamento dei numerosi e necessari arbitri che operano nel sistema democratico, a partire dalle autorità di regolamentazione per finire con la Magistratura.
Si tratta in questi casi di una vera e propria violazione delle regole, alle quali si accompagna spesso l’abbandono delle tradizionali consuetudini della vita democratica, come la separazione tra gli affari pubblici e quelli privati, l’inserimento di parenti nelle cariche pubbliche o il sistematico cambiamento dei collegi e delle leggi elettorali, in modo da favorire la propria fazione. Quando non si arriva ai casi, oggi frequenti non solo nei paesi africani, nei quali la Costituzione viene abbandonata nel momento in cui essa pone un limite alla durata del mandato di chi detiene il potere.
Naturalmente questi processi di arretramento della democrazia sono resi possibili quando si è di fronte a un crescente distacco fra i cittadini e chi esercita il potere, anche se con pieno mandato democratico. L’enorme aumento delle disparità e la crescente emarginazione della classe media prodotta dalla precedente crisi, e purtroppo esaltata dalla pandemia in corso, hanno progressivamente accelerato questo distacco.
Per non parlare della sfiducia provocata dalla ripetuta violazione delle promesse elettorali. Tutto il mondo è quindi entrato, con diversi gradi e con diversa intensità, in un processo di “recessione democratica”: dalle Filippine alla Thailandia, dalla Turchia alla Russia per arrivare al Brasile, toccando anche gli Stati Uniti. Solo l’Europa, con l’importante ma non decisiva eccezione di Polonia e Ungheria, ha posto fino ad ora un serio freno a questo arretramento, anche se ovunque si stanno indebolendo i tradizionali argini di difesa del sistema democratico, ossia i partiti politici.
Sono infatti i partiti che hanno la responsabilità di isolare le forze estremiste, di suonare il campanello d’allarme contro la violazione delle regole e, soprattutto, di selezionare con metodo democratico coloro che concorreranno alle cariche pubbliche. Sotto questi aspetti la progressiva ritirata dei partiti è un evento comune alla totalità dei paesi. Come se si volesse fuggire dalla complessità della democrazia per rilassarsi sotto le ali, apparentemente protettive, dell’autoritarismo. Sappiamo tutti che la democrazia è fatica. Essendo figlia di compromessi, negoziati e concessioni esige temperanza e autocontrollo, fino ad arrivare, in molti casi, a non dovere nemmeno usare fino in fondo il proprio potere e le proprie prerogative.
Le elezioni americane non saranno quindi importanti solo perché decideranno sulla politica interna e la politica estera del più potente paese del mondo: esse saranno anche un importantissimo indicatore della futura evoluzione di tutte le nostre democrazie.
Fino ad ora la campagna elettorale americana non ci aiuta ad essere ottimisti. Il suo svolgimento ci ha messo di fronte a tutte le potenziali involuzioni dei sistemi democratici che abbiamo in precedenza elencato, fino all’aperta minaccia del presidente Trump di non accettare gli eventuali risultati elettorali a lui non favorevoli.
Credo quindi che dobbiamo seguire con molto interesse gli ultimi giorni di questa grande sfida, anche come occasione per meditare sulla nostra democrazia, non certo immune dai rischi di involuzione che abbiamo elencato in precedenza.
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