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Ricerca, tecnologia e una politica unitaria per salvarci dalla catastrofe climatica

 


Green Recovery: la battaglia per l’ambiente senza aiuti da Usa e Cina

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 11 ottobre 2020

Nello scorso ventennio il problema ambientale è finalmente diventato dominante nella vita di tutti noi.

Gli scienziati ne approfondiscono le caratteristiche e suggeriscono i rimedi perché l’ambiente non sia devastato. I leader religiosi, a cominciare dal Pontefice, ci mettono in guardia sulle drammatiche conseguenze della rottura dei rapporti fra uomo e natura e, finalmente, un numero crescente di decisori politici cerca un accordo globale per affrontare il problema.

Il primo grande accordo fu siglato nel 1997 con il Protocollo di Kyoto. Sottoscritto da 180 paesi, entrò in vigore solo nel 2005 grazie all’impulso della Commissione Europea, nonostante l’opposizione della Cina e degli Stati Uniti. Sono poi seguite numerose conferenze internazionali con alterno successo, fino a quella che sembrava la definitiva soluzione: l’Accordo di Parigi del 2015, sottoscritto da 196 paesi che si impegnavano ad operare congiuntamente per contenere il riscaldamento del pianeta entro i due gradi centigradi. Così non è avvenuto.

Il risultato concreto di tutta questa grande e lodevole battaglia è stato, fino ad ora, solo a livello di speranza. I dati di sintesi, contenuti nell’ultimo numero della rivista Energia, ci dicono semplicemente che dal 2001 al 2019 la quota delle energie fossili sul bilancio energetico mondiale non è diminuita, ma aumentata dall’80 all’81%, mentre l’apporto delle nuove energie rinnovabili, specie l’eolico e il solare, hanno appena raggiunto il 2%, nonostante i cospicui investimenti e i notevoli incentivi messi in atto.

Le cose sono quindi andate in modo del tutto diverso da quanto deciso a Parigi e il distacco dagli impegni allora assunti è enorme. Tradotto in cifre si deve ammettere che, tra il 1998 e il 2018, le emissioni globali di gas serra sono aumentate del 48% e che solo un terzo dei nuovi investimenti nel campo energetico è stato indirizzato verso produzioni virtuose (low carbon) mentre i due terzi hanno continuato a ricorrere a fonti fossili.

È chiaro che, se le cose non cambiano, non stiamo costruendo un futuro sostenibile per le nuove generazioni, anche a causa del ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi e del fatto che Cina e India, nonostante un progressivo risveglio della coscienza ecologica, continuano a costruire numerosissime centrali a carbone.

Il crollo dei prezzi di carbone, gas e petrolio si è infine aggiunto a rendere economicamente meno convenienti gli investimenti in energie alternative, nonostante la diminuzione dei costi sia del solare che dell’eolico.

Oggi, l’iniziativa dedicata a perseguire nuovi equilibri ambientali è di nuovo ritornata quasi esclusivamente nelle mani della Commissione Europea, che ha posto come assolutamente prioritaria la rivoluzione verde, con l’ambizioso progetto chiamato Green Recovery. Un’iniziativa che si propone, nello spazio di dieci anni, di portare il calo delle emissioni dal 40 al 55% rispetto al 1990, con l’obiettivo finale di conseguire, in Europa, una piena neutralità carbonica entro il 2050. Proprio in questi giorni il Parlamento Europeo, anche se con l’opposizione del Partito Popolare, ha proposto obblighi ancora più stringenti (-60%) per il prossimo decennio.

La difesa dell’ambiente è un obiettivo imprescindibile, di cui l’Europa deve essere orgogliosa, ma è altrettanto necessario fare alcune riflessioni per evitare che si perpetui, anche in futuro, la divergenza fra desideri e realtà che si è avuta fino ad oggi.

Dobbiamo perciò in primo luogo riflettere sul fatto che l’Unione Europea genera meno del 9% dei gas serra che impestano il mondo e che tali gas, ancora più del Coronavirus, non rispettano certo i confini nazionali. Lo sforzo europeo deve essere esemplare ma, se rimane unico, non potrà conseguire risultati apprezzabili a livello globale, mentre i costi diventeranno insostenibili tanto per le imprese quanto per i consumatori.

La stessa Commissione valuta che, per conseguire una riduzione delle emissioni del 40%, occorrano investimenti incrementali di 260 miliardi di euro all’anno e molto di più per alzare l’asticella al 55 o al 60%.

Diviene perciò necessaria una politica internazionale volta a coinvolgere nella lotta ai cambiamenti climatici, almeno i due altri grandi protagonisti dell’economia mondiale, cioè Cina e Stati Uniti. L’esito delle elezioni americane sarà quindi dirimente, date le posizioni negazioniste di Trump.

In secondo luogo bisogna che, all’interno dell’Unione Europea, si proceda con una politica unitaria. Gli interessi di un paese come la Polonia, che ancora conta tanto sul carbone, e dell’Italia, che non ne produce nemmeno un chilo, sono troppo divergenti e debbono essere armonizzati a livello continentale. Il che è difficile e costoso.

In terzo luogo, una trasformazione così radicale e rapida non può essere raggiunta se non con l’applicazione di un’imposta (comunemente chiamata carbon tax) che renda conveniente il passaggio di tutto il continente verso le energie rinnovabili.

Un passaggio che risulterà ancora troppo costoso, quindi impossibile, se non sarà accompagnato da un progresso scientifico e tecnologico così forte da avvicinare in modo sostanziale i costi delle vecchie e delle nuove forme di energia.

Con lo stesso entusiasmo con cui sosteniamo la vigorosa ed esemplare politica europea in difesa dell’ambiente, dobbiamo tener conto delle difficili decisioni che dovremo prendere per renderla possibile. Altrimenti continueremo a predicare molto e ad accontentarci di quel poco che potremo e riusciremo a fare.

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