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Deflazione, quale ruolo per le banche?



                                                    di Guido Colomba

€1 coin obverse

(The Financial Review n.766) Sulle banche c'è un malessere generale acuito dalla deflazione. Ed è ora di dire la verità a cominciare dal fallimento del duale. Draghi e Visco hanno detto senza mezzi termini che la situazione è delicata. Ma anche presso le altre banche centrali, Londra e Francoforte comprese, si fa fatica a riportare la barra al centro. Forse fa eccezione il sistema bancario americano (leva finanziaria a 19,7 contro 26 in Europa) anche se sono ricorrenti le richieste di separare, come nel passato, le banche commerciali da quelle di investimento (Glass-Steagal Act). La lunga crisi, in corso da cinque anni, ha chiarito che il sistema bancario è pur sempre il passaggio obbligato per la ripresa. Purtroppo, alla crescita delle sofferenze bancarie, si è aggiunto un fatto nuovo: manca la domanda aggregata nei paesi del Sud Europa. Tra le verità non dichiarate c'è la deflazione con tutti gli effetti perniciosi su debito e consumi che essa comporta. Ma l'Europa "duale", antagonista tra Nord e Sud, sembra non voler riconoscere questa verità. Con il risultato che la politica monetaria è oramai assente come è attestato, nonostante gli sforzi encomiabili della Bce, dalla carenza di liquidità a livello interbancario. In Italia qualsiasi verità ha effetto solo declaratorio. Poi non accade nulla. Nella migliore delle ipotesi mancano troppo spesso i decreti attuativi per rendere operative le decisioni del governo. L'elenco delle cose possibili da fare è oramai delineato: a) eliminare le operazioni di "sistema" (quelle del salotto buono) con parti correlate, 2) portare in detrazione fiscale le perdite, 3) allentare da subito il controllo delle Fondazioni sul sistema bancario italiano, 4) ampliare i fondi di garanzia, 5) aumentare l'intermediazione di Borsa italiana per finanziare le imprese (equity crowd funding). Queste priorità sono inserite nell'agenda del governo? Non pare. Ecco perché S&P's ha declassato l'Italia sulla scia di "prospettive peggiorate". Anche il caso Mps è emblematico. Fino all'ultimo la "senesità" della banca ha fatto leva sulla politica localistica per difendere antiche lobby incuranti del disastro provocato. Alla fine la Fondazione ha rinunciato al tetto del 4% ma pesa la decisione del Tribunale del riesame che ha assolto Nomura dalla richiesta di bloccare 1,8 miliardi sottolineando che il "mandate agreement" era già chiaro a Bankitalia nell'ispezione del 2011. Una imbarazzante conferma del legame stretto che via Nazionale ha di fatto nutrito con la politica e con l'alta burocrazia dello Stato. Il che spiega le difficoltà che sta incontrando il neoministro Fabrizio Saccomanni, già direttore generale di Bankitalia. Un'azienda su quattro denuncia peggioramenti nell'accesso al credito (i prestiti bancari si sono ridotti di ben 60 miliardi nel corso del 2012). Il sistema bancario appare persino incapace di selezionare le imprese meritevoli di finanziamento. Un problema strutturale. Altro che liberalizzazioni e riduzioni della spesa pubblica. E' illuminante il silenzio politico che ha accompagnato le notizie sulla fiscalità delle regioni che hanno aumentato, dal 1970, di 30 volte la tassazione con un peso di 138 miliardi (9% del Pil) mentre le tasse erariali dello Stato, anziché scendere di pari importo, sono egualmente aumentate di quasi 102 miliardi a 445 miliardi. La pressione fiscale è così salita al 53% del Pil. L'Imu viene addirittura applicata sull'invenduto e sui capannoni abbandonati. L'Italia sta letteralmente implodendo per suicidio programmato. Lo Stato riesce a incassare solo nove euro su cento euro “contestati” con un incasso dal 2000 di 69 miliardi su 807 iscritti a ruolo. Nel frattempo con la crisi la ricchezza è volata -con uno stock di circa 1730 miliardi- nei paradisi fiscali. (Guido Colomba - Copyright 2013 - Edizione italiana)