Alberto Pasolini Zanelli
È meno di un trattato di pace, ma è di più di
uno dei soliti “cessate il fuoco”. I due partiti americani si sono messi d’accordo,
quasi all’ultimo momento come sempre, per evitare l’ennesima ripetizione di uno
spettacolo ormai noioso oltre che brutto: lo “sciopero” dello Stato contro se
stesso, impostogli dall’incapacità del Congresso a raggiungere compromessi che
siano qualcosa di più di un do ut des in spiccioli e a spese del dollaro.
Questa volta è, almeno, un armistizio. In una guerra scoppiata ufficialmente
nel 2011 ma in preparazione da diversi anni su almeno due livelli: quello
“normale”, si potrebbe dire anche “universale” dell’eccesso di deficit nei
bilanci degli Stati, dovuto essenzialmente all’incremento della spesa pubblica,
solo in parte evitabile o almeno contenibile e quello più strettamente politico
che si manifesta soprattutto nella strategia dei repubblicani di rendere
difficile se non impossibile a Barack Obama di governare. Anche questo fenomeno
ha più di una radice. Quella occasionale è che l’attuale inquilino della Casa
Bianca ci è entrato cinque anni fa in concomitanza con una crisi finanziaria di
gravità senza precedenti in quasi un secolo e anzi con l’“aiuto” di questa
calamità: quando si rischia di rimanere in panne si dà la colpa al manovratore
e per otto anni al timone c’erano stati i repubblicani e quindi le intenzioni
dell’elettorato, equamente divise fino a poche settimane prima fra i candidati
McCain e Obama, si concretizzarono alla fine a favore del secondo. Dopodiché i
repubblicani scelsero una strategia che si basa in gran parte, attraverso
pratiche tecnicamente e politicamente molto simili al boicottaggio, soprattutto
attraverso la Camera in cui l’opposizione detiene la maggioranza dei seggi ma
anche in Senato tramite tecniche ostruzionistiche. Strategia spregiudicata ma
tutt’altro che priva di successo, anche per le carenze di leadership che molti
osservatori rilevano di aver trovato nello stile di governo di Obama, accusato
ad un tempo di essere “rigido” e impacciato.
Di qui lo spettacolo ricorrente di scontri
parlamentari da cui era escluso in partenza il compromesso, vale a dire l’unica
strada ragionevolmente possibile. Ecco le sedute notturne scandite dalle
lancette degli orologi a muro, lo scambio di accuse e non di concessioni, il
giocare, dalle due parti, sull’orlo di un precipizio ripetutamente scelto come
scenario al fine di scaricare sull’antagonista la responsabilità di una
scivolata rovinosa. E i piccoli “cessate il fuoco” all’ultima ora, che
lasciavano intatti il problema e le possibilità di affrontarlo, “chiudendo
bottega” per qualche giorno o qualche ora e riaprendola per qualche giorno o
qualche settimana. Questa volta si è fatto di più: si è elaborata una formula
che dà ai legislatori almeno un anno per “lavorare” seriamente perlomeno ad
identificare le vere cause dello sbilancio statale. Una decisione quasi
salomonica, che permetterà alla Casa Bianca di continuare per il prossimo
biennio (cioè fin quasi alla fine della presidenza Obama) ad aumentare la spesa
pubblica in settori essenziali come l’assistenza medica, le pensioni e
l’aumento del salario minimo, salvando la faccia dei repubblicani che potranno
continuare a far crescere le spese militari. I tagli dovranno venire, ma col
tempo e soprattutto in settori meno essenziali per gli uni e per gli altri.
Che le intenzioni siano stavolta più serie lo
dimostra anche l’identità degli autori del compromesso, una senatrice
democratica e “liberale” e un deputato repubblicano, Paul Ryan, estremamente
conservatore e candidato l’anno scorso alla Casa Bianca come vicepresidente
assieme a Mitt Romney. Nessuno può cantare vittoria, al massimo tirare un
sospiro di sollievo. Però Obama ha qualche motivo in più di sollievo almeno
temporaneo: non perché abbia vinto lui ma perché il fronte di coloro che lo
avversano ha palesato i suoi punti deboli. La radice lontana dello scontro
frontale permanente è infatti la “radicalizzazione” progressiva del dibattito
politico Usa, principalmente a causa dello scivolamento del Partito
Repubblicano da posizioni e strategie di destra moderata a tattiche e
linguaggio di destra estrema, fomentate, in gran parte ma non unicamente, da
gruppi di pressione come il Tea Party, che privilegiano il continuato controllo
del Congresso anche ai danni, evidenti nelle ultime due elezioni, dei candidati
repubblicani alla Casa Bianca. Gli elettori, lo si è visto di recente, non apprezzano
questa dottrina del “tanto peggio, tanto meglio”. Anche perché l’America non
sale ma neppure precipita. Rimane in debito ma, a differenza di molti Paesi
europei, dispone dei mezzi e della sovranità per gestirlo.
pasolini.zanelli@gmail.com