Alberto Pasolini Zanelli
Il sangue torna a scorrere a Stalingrado. Alla stazione ferroviaria, alla stazione degli autobus. Bersagli a casaccio, semmai con il solo scopo di ostacolare il traffico diffondendo il panico. Ma dietro c’è una strategia che ha un obiettivo, una carta geografica, un calendario. E una “svolta” tecnica che fa a sua volta rabbrividire nella sua estrema, perversa efficacia.
La cronaca degli attentati che si moltiplicano indica chiaramente la linea principale di attacco dei terroristi, che a ogni strage compiuta o tentata pongono in calce la propria firma. Noi li conosciamo come ceceni, loro si richiamano a una dimensione geografica più ampia, l’intero Caucaso e anche quelle zone della Russia meridionale che gli sono geograficamente prossime e possiedono una considerevole minoranza etnica derivata dagli ex emirati musulmani. È una guerra antica, che ebbe il suo apice contemporaneo al disfacimento dell’Unione Sovietica, interpretato dagli estremisti come il momento di massima debolezza dello Stato russo. Fu la guerra in cui si consumò parte del prestigio del riformatore Boris Eltsin aprendo la strada alla successione dell’autoritario Vladimir Putin. Vinse, sul terreno, la repressione con la sua mano dura capace di prevalere in un luogo e in un tempo ma inevitabilmente seminando i germi di nuovi rancori. Quella che si accende è, se vogliamo, una nuova guerra fra gli stessi nemici.
Ma perché adesso? La risposta è facile anche se ce n’è più d’una, concordanti. Il calendario segna al 7 febbraio l’inaugurazione delle Olimpiadi invernali, un evento che dovrebbe essere apolitico ma molto spesso non lo è. Le ultime Olimpiadi tenute in Russia, a Mosca, coincisero con una fase acuta della Guerra Fredda, al punto da indurre gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali a boicottare i Giochi.Le Olimpiadi d’inverno sono l’occasione di una sfida con l’altro nemico della Russia, quello islamico, un conflitto che non si è mai sopito ma che ha perso, a tratti, pubblico. A renderlo più attuale, secondo i terroristi, è la scelta dell’arena sportiva “terranno i loro Giochi – ha detto uno dei leader – sulle ossa dei nostri morti”. L’ha definita “scelta provocatoria”, mentre dovrebbe essere ovvio che se la Russia vuole realizzare delle Olimpiadi invernali è obbligata, dato il suo clima, a tenerle nell’angolo meno gelido del suo immenso territorio, cioè sulle sponde del Mar Nero. E dal momento che Yalta e dintorni non sono più russe, restava solo Sochi.
Luogo e motivi ci sono, dunque, specifici. Vi si aggiungono coincidenze nazionali ed internazionali.È riaffiorata una certa tensione fra la Russia e l’Occidente, causata da una parte dai metodiautoritari di Putin e dall’altra dallo scontro di interessi nell’area mediorientale. Di nuovo le Olimpiadi sono boicottate, ma solo simbolicamente: Obama non sarà presente alla cerimonia di apertura, in pista ci saranno gli atleti americani, in prima fila una rappresentanza di omosessuali, tanto per dare una “lezione” all’“omofobo del Cremlino”. L’ondata di amnistie decise da Putindovrebbe servire a distendere l’atmosfera, ma non al punto da consentire una coordinazione organica contro il terrorismo. Mosca si difenderà da sola con metodi che non gioveranno alla sua immagine nel mondo e potranno anzi rincrudire l’odio all’interno delle sue frontiere. Ne è un dettaglio significativo il diffondersi, confermato negli ultimi attentati, di una nuova scelta dei kamikaze: non più, o non soltanto, giovani o adolescenti fanatici bensì persone che poco o nulla hanno da perdere o da temere: vecchi, malati gravi o terminali, come quella donna che si è fatta saltare in aria alla stazione ferroviaria di Volgograd e di cui hanno ritrovato la testa. I deboli come“arma assoluta”.
Estendendo però lo sguardo non si può non tenere conto della coincidenza: il terrorismo islamico in Cecenia e dintorni conosce un ritorno di fiamma contemporaneo e collegato al proseguimento della guerra civile in Siria. Volontari di molti Paesi valicano le frontiere per arruolarsi sotto la bandiera di Al Qaida e particolarmente numerosi pare siano proprio i ceceni. Guerra e vendetta a distanza, ma anche sulle porte di casa. È nel destino forse di quella città che oggi si chiama modestamente Volgograd dal nome del grande fiume ma che settant’anni fa fu teatro, come Stalingrado, della battaglia forse decisiva della Seconda Guerra Mondiale.
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