Alberto
Pasolini Zanelli
Anche immersa
nella sua crisi più accesa e grave dopo la conclusione della Seconda Guerra
Mondiale, l’Europa dà mostra, a chi ha abbastanza cura e malizia per guardarla
in profondo, di una paradossale “unità”. Nella protesta, nel vigore dei movimenti
che chiamiamo antieuropei. Ce ne sono di vari tipi, girati a destra o a
sinistra, nominalmente contrapposti ma legati alle radici da sentimenti e
reazioni che si ritrovano attraverso le frontiere geografiche e di
schieramento, nelle piazze, nelle urne e nel Parlamento di Strasburgo. Può
sembrarci una paradossale novità, ma è soprattutto un ritorno, sorprendente ma
comprensibile. Certi drammi e certe ansie si ripetono, cambiando nome e luogo
ma non sostanza. I paralleli si ripresentano. Il primo che si impone è fra
l’Italia di oggi e la Francia
del 1956. Oggi da noi allora sull’altro versante delle Alpi c’era una
situazione oggettivamente difficile, che generava tensioni e discordie, fino a
mettere in crisi non soltanto i governi ma la struttura stessa delle
istituzioni. In Italia si discute oggi, fra l’altro, se sia arrivata a fine
corsa la Seconda
Repubblica. Nella Francia di cinquantotto anni fa sappiamo
che il voto per il rinnovo del Parlamento segnò la fine della Quarta
Repubblica. La nostra emergenza di oggi è in primo luogo economica, quella dei
transalpini era soprattutto politica, ma entrambe erano, sono esistenziali.
L’Italia rischia
di perdere oggi i frutti del suo “miracolo economico” che proprio fra gli anni
Cinquanta e Sessanta si andava rivelando al mondo. La Francia stava per perdere
il suo Impero. Non era la sola, soffiava ovunque in faccia all’Europa il vento
della decolonizzazione, proprio come oggi la travolge la bufera della
globalizzazione. L’Inghilterra, toccata per prima, aveva deciso di liquidare
l’eredità imperiale nel modo più indolore e meno costoso possibile. La Francia non si era ancora
rassegnata. Recenti e brucianti erano le ferite della sconfitta in Indocina e
già era esploso l’incendio in Algeria. Si trattava di trovare un compromesso
fra la ragione e l’orgoglio, su uno sfondo aggravato dalla Guerra Fredda ai
suoi vertici e del debutto dell’integrazione europea. Le formule ed alleanze di
governo erano entrate in crisi, nuove elezioni si imponevano e con esse il
progetto di un rinnovamento e di una stabilizzazione mediante la stipulazione
di nuove alleanze. Sulle urne del 1956 incombeva meno la minaccia e l’ipoteca
del gollismo: il Generale si era ritirato nel suo eremo di
Colombey-les-Deux-Eglises, il partito da lui fondato nel 1951, il Rassemblement
Populaire Francais, era entrato in ibernazione, l’occasione sembrava buona per
restaurare un bipolarismo sia pure sullo sfondo della massiccia presenza
comunista. Si formarono due schieramenti, uno di centrodestra formalmente
guidato da Edgar Faure e uno di centrosinistra la cui personalità più nota era
Pierre Mendès France. Era assicurato, sulla carta, un risultato netto e dunque
un Parlamento “governabile”.
La Francia non
ebbe né l’uno né l’altro, perché il suo establishment
non aveva fatto i conti con gli equivalenti di Beppe Grillo e di Matteo Salvini.
Si chiamava Pierre Poujade, faceva di mestiere il cartolaio, abitava nella
provincia profonda, Saint-Céré, nel Dipartimento del Lot e aveva fondato da un
paio d’anni un movimento di protesta soprattutto fiscale. Anche nella Francia
di mezzo secolo fa era acuto il contrasto fra le pretese del Fisco e le realtà
delle piccole aziende, soprattutto commercianti e artigiane in un Paese ancora
in buona parte rurale. I governanti erano convinti, non a torto, che i profitti
dei “rurali” fossero più spesso “minimizzati” da dichiarazioni parziali rese
possibili da un intreccio di piccoli scambi più o meno sotterranei su cui le
autorità lanciavano la versione transalpina di Equitalia con tutti i suoi
controlli. I “piccoli” non lo gradivano e si sentivano a loro volta vittime di
discriminazioni in favore delle grandi aziende, delle banche e dei poteri forti.
Il cartolaio di Saint-Céré ebbe l’idea di mettere insieme tutti quei mugugni in
una associazione di autodifesa che chiamò Udca, Unione per la Difesa dei Commercianti e Artigiani.
Le adesioni furono maggiori di ogni aspettativa e il movimento toccò il culmine
della sua popolarità proprio nella primavera del 1956.
A questo punto
Poujade lo trasformò in partito, con la sigla Uff, Unione et Fraternité Francaise.
Si presentarono alle elezioni e portarono a casa 52 deputati, uno dei quali un
certo Jean-Marie Le Pen. Sissignori, proprio lui, il papà di Marine. Era
abbastanza per impedire sia alla destra sia alla sinistra di conquistare una
maggioranza. Sul “fronte del no” si sommarono i poujadisti, i comunisti e le
ritornanti tentazioni dei gollisti. Governi fragili, dunque, di minoranza,
troppo deboli per rispondere alle crisi internazionali che montavano, culminate
nella fallita spedizione militare anglofrancese a Suez nel novembre di
quell’anno. Poi “scoppiò” l’Algeria e si portò dietro il regime. Resa
ingovernabile dal cartolaio, la
Francia fece appello al Generale. Tornò De Gaulle. Morì la Quarta Repubblica.
Nacque la Quinta.