Alberto Pasolini Zanelli
Un altro vertice.
Ancora un vertice. Preceduto da un vertice preparatorio di un vertice. Non si
può dire che gli economisti siano pigri o insufficientemente consci delle
dimensioni delle crisi: quella italiana, quella europea, quella planetaria. Se
ce ne fosse bisogno, basterebbe a dimostrarlo la moltiplicazione delle cure. O
almeno delle proposte di cura, siano esse esperimenti, proposte, nostalgie più
o meno fondate su dottrine economiche nuovissime o, più spesso, passate.
Esperimenti concreti come il governo di Professori in Italia, revival
ideologici contrapposti, soprattutto in America, tra neo-keynesiani e
neo-neomonetaristi. Il progetto più audace viene però da due professori che non
sono né economisti né politici ma che, in un modo tutto loro, si possono
definire umanisti. Uno è americano, l’altro europeo. Il primo insegna
all’Università di Harvard, il secondo all’Istituto Max Planck di Lipsia.
Entrambi detengono
la cattedra di Genetica. E hanno in comune una passione: l’uomo di Neanderthal.
A spingerli sono l’esperienza scientifica, la rapidità dei progressi nel loro
campo specifico ma anche, e questa è la novità, un interesse “sociale”, anzi
socioeconomico, che si nutre di attualità. Sono scettici, i due scienziati, sui
risultati delle riforme, siano esse affidate ai politici o ai loro colleghi di
cattedra economisti. Questi Professori guardano più in là dei Professori che ci
governano. Più in là e, naturalmente, all’indietro. Più o meno a quando si
estinse (saranno passati trentamila anni in tutto) l’ultima ipotesi alternativa
di umanità all’homo sapiens come noi ci chiamiamo. A loro abbiamo riservato un
più modesto nome geografico, di una piccola valle germanica, la Neander, dove
sono stati trovati suoi resti e parchi souvenir. Sappiamo pressappoco come
erano fatti, qualcosa delle loro abitudini e dei loro modi di pensare.
Qualcosa che ha
fatto scattare, almeno nella mente del professor George Church, quello di
Harvard, la molla di un’ipotesi ardita: gli uomini di Neanderthal avevano una
testa sensibilmente più grossa della nostra. Forse avevano dunque più spazio
per pensare, per avere delle idee. E se fossero stati dei geni dell’economia,
in grado di sistemare la “crisi del debito” senza imporre il peso
dell’Austerity sull’Europa? Che era, dopotutto, la loro terra, non la nostra. I
progressi della genetica ci permettono ormai di sapere esattamente quando e
dove le specie umane sono nate e morte. Gli uomini e le donne che noi siamo,
ormai è assodato, vengono tutti dallo stesso posto, un piccolo angolo della
Terra attorno a uno stretto fra l’Africa e la Penisola Arabica. Ha anche un
nome: Bab-el-Mandeb, Porta della Lamentazione Funebre. Di lì ci espandemmo a
“colonizzare” i Cinque Continenti, inclusa l’Europa il cui destino fu poi,
molto più tardi, di colonizzare il mondo. Siamo tutti immigranti, più o meno
“africani”. Gli “europei”, la razza nata qua, erano gli uomini di Neanderthal.
Di quelli conosciamo meglio della culla, la tomba: un angolo di terra subito
accanto a quello che era Gibilterra. Arrivati dall’Est, noi li spingemmo
gradualmente fuori dall’Europa e si estinsero a un passo dall’Africa. Ma non è
la loro storia che conta agli occhi dei due Professori: è la possibilità che,
inferiore all’epoca delle grandi migrazioni, l’uomo di Neanderthal potrebbe
esserci stato “superiore” se confrontato con certi nostri problemi di oggi. Non
solo, ma soprattutto per via di quella testa più grossa da cui potevano
scaturire formule geniali per rilanciare economia, finanza, benessere, libertà
personali e politiche, forse perfino democrazia.
Fra i tanti motivi
di scrollare il capo di fronte a questa ipotesi, ce n’è una più fondata di
tutte, meno discutibile: l’uomo di Neanderthal non esiste più; nato
trecentomila anni fa nell’Europa Orientale, è morto sotto la rocca di
Gibilterra trentamila anni fa, due più o due meno. Quindi non esiste più e mica
possiamo farlo risorgere. Sì che possiamo, incalzano i due Professori. Church
l’americano aggiunge che non sarebbe neppure tanto difficile, a causa appunto
dell’incredibile accelerazione degli studi e degli esperimenti nel campo della
biologia sintetica. Egli è uno degli autori del Progetto Genoma Urano e
l’inventore, in particolare, del marketing genetico. Nel suo ultimo libro egli
lancia un nuovo termine: “Rigenetica, ovvero come reinventare la natura e noi
stessi”.
Il suo collega in
Europa, Svante Paabo, svedese ma titolare di una cattedra in Germania, è stato
il più caloroso nell’accogliere il messaggio. Lui è il numero uno indiscusso
della Paleogenetica. Sa tutto su come recuperare un dna antichissimo a partire
da ossa fossili, un artista di quello che fino a pochi anni fa era considerato
l’impossibile. Entrambi spiegano come si fa: introducendo pezzettini di dna
fossile in esseri viventi in modo da integrarli a poco a poco fino a fargli
assumere le caratteristiche ricercate dell’organismo estinto. Si creerebbero
dunque dei “meticci” cosa che, almeno fino a quel che si credeva ieri, non era
riuscita agli uomini (e alle donne) di Neanderthal con le donne (e gli uomini)
alla nostra maniera. Il professor Church ammette che per portare avanti in
fretta l’esperimento ci sarebbe bisogno di “donne piuttosto coraggiose”. Ma
varrebbe la pena, ne è sicuro e il collega dall’Europa assente altrettanto
energicamente. Gli ostacoli “tecnici” sono ormai superati: “Saremmo in grado di
far rivivere specie estinte da un milione di anni”, figuriamoci trentamila.
Obiezioni morali?
Un progetto del genere è proibito, che si sappia, in un solo Paese: la
Germania. Per il resto è lecito e sarebbe benefico perché contribuirebbe,
dicono i professori, a “espandere la diversità da società come la nostra che
soffre nell’essere una monocultura”. L’uomo di Neanderthal potrebbe dunque non
solo risanare le economie del XXI secolo ma distruggere anche il mostro
“antidiluviano” del razzismo.