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La fiducia che serve all’Italia


La lezione della rinascita nel Dopoguerra. Per ripartire bisogna trovare la capacità
di credere in noi stessi, di investire e rischiare
di Aldo Cazzullo
(Corriere della Seara)

Se l’Italia della Ricostruzione avesse fatto il calcolo costi-benefici, con cui la commissione governativa l’anno prossimo dirà no alla Tav, l’Autostrada del Sole non sarebbe mai stata costruita. Nei primi anni del dopoguerra solo un italiano su 50 possedeva un’automobile. Il sogno era la Lambretta; nel frattempo si girava in bici. Invece il 19 maggio 1956 veniva posta la prima pietra dell’Autosole, e due anni e mezzo dopo si inauguravano i primi tronchi, da Milano a Parma e da Napoli a Capua. L’opera fu completata con tre mesi di anticipo. Per collaudare il ponte sul Po vennero usati dieci carri armati e venti Tir carichi di pietre.
Era un’Italia in cui i ponti reggevano.
Tragedia simbolo
Oggi, a quattro mesi e mezzo dalla tragedia simbolo del 2018, il crollo del ponte di Genova, non abbiamo ancora finito la demolizione; altro che ricostruirlo. Il mitico Toninelli assicura che sarà tutto pronto per il marzo 2020, forse anche prima. Vedremo. Di sicuro, Genova è solo l’ultimo episodio che conferma l’evidenza: l’Italia del 2019 è di nuovo un Paese da ricostruire. Tutta la penisola ha un urgente bisogno di infrastrutture, dalla pedemontana veneta alla viabilità siciliana: da decenni si sente dire che prima del Ponte sullo Stretto bisogna dare alla Sicilia ferrovie e strade moderne; nell’attesa non abbiamo né l’uno né le altre. L’alta velocità, una delle poche cose buone fatte in Italia negli ultimi vent’anni, si ferma a Salerno. La stupenda isola e in genere il Mezzogiorno sono teatro di un grande boom turistico, favorito non tanto dalle iniziative pubbliche e private ma dal crollo dei viaggi in Medio Oriente, Turchia, Egitto, Tunisia. Turismo non vuol dire solo alberghi e ristoranti, ma infrastrutture, cultura, spettacolo. Non ha bisogno solo di cuochi e camerieri ma di ingegneri, architetti, operai, tecnici, restauratori, guide, interpreti, artisti. Ma in Italia anche le cose più banali come noleggiare un’auto o trovare un taxi diventano imprese (quest’estate sono stato in Sicilia tre volte. La prima volta le auto a noleggio erano finite. La seconda ho atteso quattro ore in un hangar dell’aeroporto di Catania tra bambini urlanti e stranieri increduli. La terza ho deciso di prendere un taxi. Non c’erano. Quest’autunno mi è accaduto di non trovare taxi neanche alle stazioni di Parma, di Verona, di Bergamo, ovviamente a Roma Termini e Roma Tiburtina, qualche volta persino a Milano Centrale e Milano Porta Garibaldi. Ma quale futuro può avere un Paese che non riesce a far trovare i taxi in stazione?).
In fretta e furia
Dopo la guerra l’Italia fu ricostruita in fretta e furia, a volte male. L’architettura degli anni 50 e 60 non è bellissima. Negli anni 70 si è fatto se possibile di peggio, con utopie ideologiche tipo il Corviale a Roma, le Vele a Scampia, lo Zen a Palermo, il Librino a Catania, pensate come comunità e divenute incubi metropolitani. Un grande piano per il recupero e il risanamento delle periferie creerebbe impieghi, rilancerebbe l’edilizia, ricucirebbe fratture sociali. Purtroppo l’Italia nel 2018 non ha scelto la strada delle grandi opere e in genere degli investimenti nel lavoro. Intendiamoci: la separazione tra lavoro e ricchezza non comincia certo ora. Nell’Italia della Ricostruzione il lavoro era durissimo, spesso insostenibile: acciaierie in riva al mare, ciminiere in città, reparti verniciatura. Ma con il lavoro si produceva la ricchezza. Oggi i soldi si fanno con altri soldi, il lavoro sembra diventato un problema: se un’azienda licenzia, le sue quotazioni in Borsa saliranno, i suoi azionisti si arricchiranno; e il poco lavoro rimasto è più tassato delle rendite. Però la decrescita (in)felice, il grande No a quasi tutto, insomma l’ideologia che ispira il grillismo delle origini e in parte ancora condiziona il grillismo di governo è l’altra faccia della deprecata finanziarizzazione dell’economia. L’idea è che, essendo il lavoro diventato superfluo, i redditi non vadano appunto legati al lavoro ma alla cittadinanza. Un’idea che meriterebbe di essere discussa e approfondita, se a pagare il reddito di cittadinanza fossero coloro che hanno accumulato in questi anni enormi ricchezze grazie all’automazione, che ha distrutto il lavoro operaio, e alla rivoluzione digitale, che ha mandato fuori mercato milioni di impiegati e commercianti. Purtroppo il reddito di cittadinanza promesso dal governo Conte non sarà pagato dalle multinazionali, dalle grandi famiglie con i soldi alle Cayman, dai padroni della Rete; sarà pagato dalla piccola e media borghesia italiana che versa l’Irpef.
Non solo strade e periferie
Non vanno ricostruite soltanto le strade e le periferie. È più importante ancora ricostruire la fiducia in noi stessi, nel Paese, nell’avvenire. La fiducia è la merce più rara nell’Italia di oggi. Nessuno si fida più di nessuno. Nessuno paga più nessuno: lo Stato non paga i fornitori; molti debitori evitano di onorare gli impegni con i creditori; «fammi causa» è la frase più ascoltata. La Rete contribuisce a trasmettere una cultura del risentimento e della deresponsabilizzazione, sterile e controproducente. La colpa è sempre degli altri. Molti sudisti sono convinti che il Sud sarebbe una potenza mondiale se il Nord non l’avesse invaso e colonizzato. Molti nordisti sono certi che il Nord sarebbe una grande Baviera se non avesse la palla al piede del Sud. Ma se la colpa è degli altri, noi cosa possiamo farci? Il vero cambio che dovremmo chiedere all’anno che verrà è proprio questo: capire che molto, se non tutto, dipende da noi. Non dall’infido Trump, dagli avidi cinesi, dalle banche malvagie, dalla casta odiosa; da noi. Ovviamente le certezze neoideologiche dei sovranisti sono destinate a scontrarsi con la realtà: l’economia mondiale è ormai interconnessa. Le élite tradizionali hanno fallito clamorosamente; ma se il criterio del ricambio è la mediocrità, la logica livellatrice dell’«uno di noi», allora le nuove classi dirigenti potrebbero rivelarsi se possibile peggiori delle vecchie.
La politica
La salvezza non verrà dalla politica. Può venire solo da noi stessi. Nel terribile decennio della crisi, gli italiani hanno dimostrato capacità di resistenza. Ora si tratta di fare un altro passo: ritrovare la capacità di credere in noi stessi, quindi anche di investire e rischiare. In questi anni l’Italia si è impoverita; ma paradossalmente il risparmio privato è cresciuto. Chi ha i soldi non li spende e non li investe; li accumula in attesa che passi la nottata. Però la nottata non passa da sola. Avere in tasca la stessa moneta dei tedeschi garantisce stabilità ma impedisce il ricorso alla scorciatoia della svalutazione, al vecchio trucco della spesa pubblica senza controlli. La nottata passerà quando ci renderemo conto delle potenzialità del nostro Paese nel mondo globale, e investiremo su quelle, anziché cercare capri espiatori su cui riversare le nostre responsabilità, anziché guardare gli stranieri arricchirsi vendendo prodotti che suonano italiani e non lo sono.