Romano Prodi
Il declino dei partiti/ La lezione francese sul leader solitario
Anche ieri in tutta la Francia si sono ripetute le manifestazioni dei “gilet gialli”: i loro scontri con la polizia hanno già provocato centinaia di feriti. Si tratta di eventi del tutto imprevisti per durata, intensità e dimensione, ma soprattutto per gli elementi di novità che contengono.
La prima novità è che si tratta di una manifestazione di portata nazionale che nasce in modo assolutamente spontaneo non solo al di fuori delle organizzazioni politiche o sindacali ma anche al di fuori di strutture sociali o professionali. Non è un movimento di studenti o di operai né, tantomeno, di colletti bianchi. Non è di destra o di sinistra, anche se fortemente indirizzata contro il Presidente Macron: né l’estrema destra di Marine Le Pen né l’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon sono state quindi in grado di impadronirsene.
Da parte loro le centinaia di migliaia di dimostranti non sventolano bandiere rosse o drappi neri ma vestono semplicemente il giubbotto giallo che tutti gli automobilisti sono obbligati a tenere nella propria automobile: un simbolo del tutto neutrale, che non costa nulla, che è grandemente visibile e, soprattutto che, essendo indossato in caso di emergenza, è di per se stesso un simbolo di solidarietà. Dal punto di vista mediatico un’idea geniale perché capace di esprimere un malessere che non si limita ad un unico tema e nemmeno si identifica con un unico obiettivo. I temi della protesta sono infatti tanti.
Si va dall’eccessiva disparità dei redditi ai salari stagnanti, dalla politica fiscale accusata di essere solo a vantaggio dei ricchi al disagio delle periferie e della provincia francese che si sente trascurata dal potere. Contro il centralismo del governo e a favore di processi decisionali fondati sulle assemblee e sui referendum. Per una nuova politica ambientale ma violentemente contro l’aumento delle imposte sui carburanti che pure dovrebbe contribuire a sostenere il costo di questa nuova politica.
Richieste tra di loro incompatibili ma che esprimono un disagio accumulato nel tempo e che, in quanto tale, trova un inaspettato appoggio dell’assoluta maggioranza del paese. Mentre solo il 40% dei francesi si era schierato contro le decisioni del governo nei confronti dei ferrovieri e poco più della metà contro la proposta di riforma del mercato del lavoro, oltre il 70% sostiene oggi la lotta dei gilet gialli contro un presidente eletto trionfalmente diciotto mesi fa.
Un trionfo elettorale che ha però fatto di Macron un leader solitario. Un leader che gode dell’assoluta maggioranza di un’Assemblea Nazionale così indebolita da non potere svolgere alcun ruolo di mediazione nei confronti di dimostranti che, a loro volta, non sono in grado di esprimere, e nemmeno cercano, una leadership capace di tradurre la loro protesta in proposta. E nemmeno può venire in soccorso a Macron il suo partito (La République en Marche) perché non sufficientemente radicato nel paese e incapace quindi di fornire un appoggio alle riforme del Presidente. L’attuale responsabile del partito di Macron è quindi costretto a limitarsi a dichiarare che il Presidente ha fatto riforme importanti ma non sufficientemente ugualitarie.
Tutto questo ci porta a riflettere sui rischi che corre un governo quando il potere si concentra nelle mani di una sola persona e vengono a mancare i pesi e i contrappesi che garantiscono gli equilibri di lungo periodo delle democrazie liberali. Se scompaiono i partiti politici emerge, anche nel pur collaudato sistema politico francese, l’evidente debolezza del leader solitario.
Macron ha inviato in questi giorni ripetuti messaggi di comprensione (“capisco, capisco, capisco”...) ma né lui né i giubbotti gialli sono ora in grado di fare marcia indietro e nessuno è, almeno oggi, capace di mediare. Da un lato si pensa che il Presidente dovrà alla fine cedere per stanchezza e, dall’altro, si spera che anche i dimostranti, non avendo un leader, finiscano col disperdere le proprie energie.
Una mediazione resa ancora più difficile dall’accento sull’urgenza dei tempi invocata dai gilet gialli. Non solo essi criticano le riforme ma continuano a ripetere che il Presidente, con le sue proposte di grandi cambiamenti, pensa “alla fine del mondo” e che loro sono invece costretti a pensare “alla fine del mese”. Una diversità di prospettiva che rende ancora più lontane le possibilità di un accordo. Gli scontri delle strade di Parigi ci obbligano quindi a ripensare anche sui tempi della democrazia che si indebolisce fatalmente quando si riduce, come spesso avviene, a ragionare sul tempo breve ma che, come in questo caso, è spinta verso il tempo breve proprio dalla pressione dei cittadini.
La lezione che ci arriva da Parigi è che, quando mancano i corpi intermedi, quando manca il dialogo, quando mancano i partiti, quando manca la politica, è difficile ricucire le lacerazioni che si producono nella società e avere fiducia nei progetti di lungo periodo: una lezione che non vale soltanto per la Francia. (Il Messaggero)