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Una o due Americhe


Alberto Pasolini Zanelli
Fino a due giorni fa di Americhe ce ne sono state due e la spaccatura veniva costantemente deplorata, anche e soprattutto da coloro che ne erano responsabili. Poi per due giorni è stata una, grazie all’opera e alla personalità di un suo presidente, ammirato e prezioso, ma soprattutto da morto. Finiti i solenni funerali pubblici di George Bush, quarantunesimo inquilino della Casa Bianca, l’America è tornata a raddoppiarsi, cioè a dividersi, ovvero a spaccarsi in due. Erano quasi commoventi tutti quegli esponenti repubblicani e democratici con la mano sul cuore davanti al sarcofago issato su una sorta di altare: perfino Donald Trump.
Che adesso è tornato a fare il suo mestiere e gli altri ciascuno il proprio, dunque divisi fra chi aggredisce Donald Trump e chi lo difende. Questi ultimi continuano ad essere meno della metà, almeno per l’opinione pubblica che in realtà poi nella maggioranza si sta rassegnando ad averlo alla Casa Bianca. Le esequie di un predecessore giustamente ammirato ed amato non costruiscono leggi o aiutano a raggiungere decisioni: tocca ai vivi. Non si pretende che si mettano d’accordo in così breve tempo su cosa fare, ma ci si sarebbe aspettati che si coordinassero nel raccontare che cosa è successo e cosa è urgente che succeda. Non è andata così, finora: la contrapposizione permane. Ma non solo quella fra democratici e repubblicani, fra i fautori di una America “nuova e più forte” e i difensori di un’America forte e ragionevole, ma anche e proprio fra coloro che dovrebbero raccontare agli americani che cosa sta succedendo in America e nel mondo. La divisione è nel campo delle informazioni e non è mai stata, forse, così netta e pittoresca: da una parte la televisione, dall’altra i giornali. Non come scontro di opinioni, ma come scelta nel raccontare che cosa sta succedendo.
Secondo la televisione (o almeno la grande maggioranza dei canali) l’imminenza centrale è uno scossone al potere con il suono del crollo delle istituzioni. Per colpa di quell’incubo istituzionale che si chiama impeachment. Per chi ascolta i notiziari non solo è diventato sicuro, ma pressappoco imminente, da quando uno dei tanti giudici coinvolti nella rissa politico-giuridica ha preso una decisione formale riguardante uno degli imputati, ma non quello centrale. Qualche togato ha deciso di non credere alla deposizione di qualcuno fra i tanti indagati per tante cose che però potrebbero finire col far crollare le spicciative ma aggressive difese dell’attuale inquilino della Casa Bianca al punto di spingerlo nel ristretto gruppo di predecessori, riassumibili nel nome di Richard Nixon, il presidente che fu cacciato per le bugie che disse a proposito di una vicenda immortalata da un nome: Watergate.
Le previsioni che nascono da tale interpretazione disegnano già, sugli schermi televisivi, uno “scontro finale”: qualche magistrato che dichiara Trump colpevole di pubbliche menzogne, lo deferisce al Congresso e il Congresso lo caccia dalla Casa Bianca. Chi lo racconta ha il fiato grosso dall’emozione e snocciola nomi su nomi di “complici”, accusatori e personaggi grandi e piccoli semplicemente coinvolti nella vicenda.
Molti americani sono andati a dormire con questo allarme o questa tumultuosa speranza. Quando si sono svegliati sono andati a cercare i particolari sui quotidiani, a cominciare dai due grandi fogli nazionali, il New York Times e la Washington Post. E non hanno trovato quasi niente. Vi si parla d’altro, con competenza, precisione, puntualità che probabilmente si dovranno ripetere le elezioni in una circoscrizione della North Carolina perché pare che gli attivisti repubblicani abbiano fatto sparire delle schede. Che i parlamentari dello stesso partito, che sono in maggioranza fino al 31 dicembre, già stanno lavorando a nuovi regolamenti che limitino i poteri della nuova maggioranza che si inaugura il primo gennaio e che sarà democratica. Che il presidente pare abbia adottato una “linea” più dura nelle trattative commerciali con la Cina, che gli attacchi dei talebani si moltiplicano in Afghanistan, che l’Ucraina richiama i riservisti in conseguenza della crisi con la Russia, che Netanyahu rischia di perdere il posto e che la buona società di Washington ha accolto una nuova star: una bella signora che si è scelta come cognome Stormy che da tempo ha adottato per i suoi intimi contatti, fra cui quello che lei ricorda benissimo e che il suo partner dell’epoca ha dimenticato o nega. Il suo nome è naturalmente Donald Trump, la cui vicenda ha messo in moto la macchina di cui tutti parlano tranne i giornali di ieri. Mentre le voci dal video danno addirittura per imminente il rombo finale della tempesta: il licenziamento del presidente repubblicano da parte del Congresso democratico. Dimenticando fra l’altro che il sostantivo impeachment riguarda la messa in stato d’accusa (che deve essere decisa sì dalla Camera), ma non è una sentenza perché quella è nel potere del Senato, che è tuttora dominato dai repubblicani. Nella migliore delle ipotesi, dunque, si dovrà aspettare per mesi. Forse stavolta l’annuncio lo daranno prima i giornali.

Pasolini.zanelli@gmail.com