News and comments from the Capital of the United States (and other places in the World) in English and Italian. Video, pictures, Music (pop and classic). Premio internazionale "Amerigo".
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Il cono gelato
Gentile Primo Ministro:
Chi le scrive e' un suo sostenitore e non fa parte della schiera dei denigratori ad oltranza e di quelli che pretendono che Lei in sei mesi di governo riesca a risolvere problemi centenari di un'Italia ammalata di scarsa voglia di lavorare ma pronta a reclamare il rispetto di una moltitudine di diritti.
Per cortesia, signor Renzi: la smetta di fare battute e di rigirarsi nelle goliardate stile cono gelato.
Si renda conto, finalmente, che la sua carica vale anche e soprattutto per il body language, il linguaggio del corpo.
Metta da parte gli atteggiamenti burbanzosi. Quello che gli italiani chiedono al Primo Ministro e' un linguaggio serio e responsabile.
Le battute si fanno rivolte a persone che sono nella condizione di spirito di sorridere. Non a Italiani ai quali girano le palle in continuazione.
Si ricordi l'antica massima delle pubbliche relazioni:
un eccesso di comunicazione distrugge l'immagine di un personaggio.
Quanto poi alle lingue straniere che Lei non maneggia con facilita', Lei e tenuto a parlare nell'idioma del Paese che rappresenta. Nessuno si aspetta che Lei parli fluentemente in inglese, francese, tedesco, spagnolo e magari magiaro.
Ci sono i traduttori che fanno quel mestiere. I giornalisti stranieri che imparino loro l'italiano.
Con stima,
Oscar Bartoli
(momentaneamente a Baja Sardinia)
In Ucraina, adesso, si parla tedesco
Alberto Pasolini Zanelli
In Ucraina, adesso,
si parla tedesco. Con l’inconfondibile accento di Angela Merkel, che oltre a
tutto è l’unico capo di Stato dell’Occidente in grado di esprimersi
correntemente nel russo che ha imparato in decine di anni di occupazione
sovietica della Germania Orientale. È vero che anche Vladimir Putin, per anni
esponente locale degli occupanti, si esprime correntemente nell’idioma
germanico, anche nel recentissimo incontro bilaterale; però quello che trapela,
o viene fatto trapelare, di questo “vertice” emerge che la voce dominante è
stata quella di Berlino e non di Mosca. E per un paio di motivi, il principale
dei quali è che la
Cancelliera ha messo sul tavolo un bel mazzetto di euro, come
carburante per una serie di proposte che assomigliano molto a un tentativo di
mediazione. Che ha il pieno appoggio degli Stati Uniti: Obama sembra deciso,
almeno in questa fase della crisi, a ritirarsi dietro un paravento e a
incaricare i tedeschi di condurre il gioco diplomatico. In proprio e anche,
almeno ufficialmente, a nome dell’intera Unione europea.
Non tutti i soci sono
egualmente disposti a pagare le spese delle complesse transazioni, ma gli euro
pare ce li metta soprattutto Berlino: un po’ più di 600 milioni come contributo
alla ricostruzione delle aree dell’Ucraina orientale danneggiate dai
combattimenti. Con una condizione piuttosto chiara: il riconoscimento che
iniziative solamente militari non possono risolvere la crisi. Questo consiglio è
soprattutto rivolto agli ucraini, che sui terreni dello scontro sembrano godere
in questo momento di un vantaggio e comunque prendono la maggior parte delle
iniziative. A parole sono i russi a dimostrare adesso buona volontà, anche se senza
rinunciare interamente a mosse sul terreno di battaglia.
I motivi di questo
cambio di strategia possono essere in parte suggeriti da una momentanea
debolezza ma soprattutto da una nuova strategia, che consisterebbe nel rinunciare
a tentativi di offensiva su vasta scala e mantenere invece “punture di spillo” di
dimensioni ridotte e strettamente locali. Gli esperti definiscono tale progetto
“guerra ibrida”, che non è stata ancora interrotta, ma è più vicina a un
eventuale “cessate il fuoco”. Una gran voglia di combattere non si vede in
queste ore sui due lati del “fronte”. Sono rientrati quasi tutti i “camion” dei
soccorsi umanitari russi; ne è rimasto qualcuno in modo da mantenere punti di
appoggio. Quanto alle zone tuttora in mano ai secessionisti, sono gli ucraini ora
ad attaccare, senza però spingere proprio a fondo. Da ambo le parti si
registrano episodi significativi o almeno curiosi: alcuni paracadutisti russi
sono stati intercettati e catturati: si sono scusati dicendo di avere
semplicemente sbagliato strada. Un po’ più a Nord un forte reparto ucraino è
stato attaccato, ma i soldati, invece di resistere, hanno proposto ed ottenuto
dal comandante una ritirata strategica.
Siamo lontani, pare,
dalla furia che ha accompagnato le prime fasi delle ostilità, ma più simili,
semmai, agli episodi che avevano contrassegnato, non molto prima, la
penetrazione russa in Crimea. Gli uni e gli altri, peraltro, non rinunciano alle
ipotesi di ottenere o mantenere il controllo dell’area più meridionale del
“fronte”. Da parte russa emerge l’intenzione di mantenere aperta, anche durante
la fase delle trattative, una alternativa geografica all’asse attuale dei combattimenti
attorno all’area del Donbass. L’alternativa è in direzione della città costiera
di Mariupol, sul mare di Azov, come punto di partenza di un collegamento
terrestre con la Crimea. Si
tratta probabilmente di manovre diversive: su un piano più generale i russi
paiono in questi giorni piuttosto in ritirata e gli ucraini si sforzano di
accumulare in questi giorni il maggior terreno possibile di quello perduto
nelle fasi inaugurali dell’insurrezione dell’Ucraina orientale. Qui si
inseriscono i consigli della signora Merkel, che sono appunto molto chiari: che
il governo di Kiev non si illuda di potere piegare i dissidenti con il solo uso
della forza. L’obiettivo rimane una trattativa, magari lunga, ma che attutisca
gradualmente le tensioni e sposti il tema centrale sulla necessità di risarcire
i danni mediante anche generosi interventi finanziari dell’Europa. Una “linea”
emersa chiaramente dai colloqui della Cancelliera con il primo ministro ucraino
Poroshenko.
“Il nemico del mio nemico è un mio amico”
Alberto Pasolini Zanelli
“Il nemico del mio
nemico è un mio amico”. È una massima vecchia di secoli, cinica ma pratica, che
quasi tutti i belligeranti adoperano, più spesso senza citarla. A quanto pare,
però, difficile da applicare in Siria, nel punto focale di una guerra che
dilaga in tutto il Medio Oriente ma che sembra aver trovato laggiù un nuovo
punto focale. In quei deserti quasi tutti hanno un nemico o più, le alleanze e
le inimicizie sono rapidamente mutevoli anche se su uno sfondo di odii
millenari. Ma il tarlo odierno pare proprio il più chiaro e nitido: i fondatori
del nuovo Califfato (nipoti ideologici di Bin Laden) hanno dichiarato guerra a
tutti: governi, nazioni, appartenenze religiose, senza concedere, né a parole
né soprattutto nei fatti, alcuna possibilità di compromesso: in pochi giorni i
suoi adepti hanno massacrato dei musulmani di una setta dissidente, sunniti
quanto il Califfo ma dalle fedi “impure”, più dei cristiani in quanto tali e
infine un giornalista americano, più ancora colpevole come americano che come
giornalista.
Tutto questo è
accaduto su suolo siriano anche se come rappresaglia per l’esito di una
battaglia che si è svolta su suolo iracheno. Il governo Usa, di conseguenza,
non poteva rispondere a tale atto particolarmente barbarico con una serie di
atti di guerra, mandando aerei da combattimento a disperdere quei “guerriglieri
di Allah”, ad aprire una via di scampo ai perseguitati e ad estendere la zona
di operazioni belliche da un pezzo di deserto sotto la sovranità di Bagdad a
quell’altro su cui dovrebbe sventolare la bandiera di Damasco, proprio contro
l’esercito ufficiale siriano. Ne deriverebbe dunque un’alleanza di fatto,
fondata su un campo di battaglia, fra almeno due dei nemici dei jihadisti, in
perfetta rispondenza a quella regola “nemico + nemico = alleato”.
E il più in fretta
possibile, poiché il vantaggio è mutuo nei combattimenti, nella disponibilità
di armi e soprattutto nello scambio di informazioni “fresche”. Naturalmente con
difficoltà peculiari: il governo e il potere a Damasco sono tutt’altro che amici
degli Stati Uniti, anche se la
Siria è scesa in campo come alleata degli Usa in entrambe le
guerre contro l’Irak di Saddam Hussein. Oggi però l’America appoggia in molti
modi (gli unici proclamati e altri clandestini) i ribelli in una guerra “civile”
in corso da più di tre anni e che ha già fatto quasi duecentomila morti. Gli
insorti ricevono aiuti diplomatici e altri più concreti, che vanno dai
rifornimenti alle “armi non letali”, alla rinuncia imposta all’arsenale di
“armi di distruzione di massa”, a cominciare dai gas.
Tutto questo non
solo per volontà di Washington ma con un consenso quasi mondiale. Solo la Russia si è mossa quando l’apertura
di un conflitto ufficiale pareva imminente, bloccandola con una soluzione cui
nessuno ha osato dire di no. Ma la guerra civile è andata avanti e anzi, da
poco meno di un anno, a favore delle forze governative, che hanno recuperato
buona parte del territorio perduto e a lungo controllato dagli adepti della
“libera Siria”, sostenuti dall’Occidente ma che hanno perso vigore e, forse,
entusiasmo. La dissoluzione di parte delle formazioni di ribelli “democratici”,
più l’usura delle forze governative, ha creato dei vuoti in cui si sono
inseriti i guerrieri del Califfo, che attaccano dove possono i nemici che
trovano. L’ultima loro conquista, un importante aeroporto, ha visto la rotta
dei fedeli del dittatore Assad, proprio nel momento in cui a Washington si
accendeva il dibattito se l’America debba collaborare militarmente con tutti
gli eserciti e le milizie siriane contro il nemico comune, più forte e più
temuto: quello jihadista sotto le bandiere del Califfo.
Da parte del
Pentagono pareri e suggerimenti sono prevalentemente positivi. Ai militari
sembra perfino ovvio seguire l’antico dettame secondo cui il nemico del mio
nemico non può non diventare, almeno temporaneamente, il mio alleato. Però i
politici non la pensano così e Obama pare incline a schierarsi con loro: un
portavoce del Dipartimento di Stato ha anzi “assicurato” che l’America non
intende condurre sforzi militari congiunti con il regime siriano. Il Califfo
potrebbe dunque stare tranquillo., perché i suoi nemici continuerebbero ad
agire scoordinati. O addirittura a combattersi.
Da Warsawa a Udine
Per riuscire a trovare la nuova autostrada che va a Katovice e poi a Ostrava nella Repubblica Ceca abbiamo dovuto prendere un taxi che ci facesse strada, dopo quasi due ore di lotte con il GPS che impazziva e i cartelli in pura lingua polacca. Nemmeno uno in inglese. Non si chiede che li scrivano in italiano, anche se siamo a Varsavia.
Autostrada molto bella e curata con limiti di velocita' scarsamente rispettati dagli indigeni.
A Chestokova due ore di fila in mezzo a autocarri perche' fanno dei lavori e non si sono premurati di trovare un percorso alternativo.
In nottata arriviamo nelle vicinanze di Wien per proseguire verso Graz e l'Italia.
Autostrade perfette anche in Austria. All'imbocco delle gallerie impongono di non superare la velocita' di 100 KM e se uno ci prova scattano le telecamere.
Ed eccoci alla frontiera italiana: Tarvisio. La prima galleria e' trasandata, le segnaletiche di lavori in corso messe cosi' tanto per fare. Lo specchio immediato dell'Italia di oggi. Evviva.
Arrivo a Udine dopo quindici ore di guida.
Autostrada molto bella e curata con limiti di velocita' scarsamente rispettati dagli indigeni.
A Chestokova due ore di fila in mezzo a autocarri perche' fanno dei lavori e non si sono premurati di trovare un percorso alternativo.
In nottata arriviamo nelle vicinanze di Wien per proseguire verso Graz e l'Italia.
Autostrade perfette anche in Austria. All'imbocco delle gallerie impongono di non superare la velocita' di 100 KM e se uno ci prova scattano le telecamere.
Ed eccoci alla frontiera italiana: Tarvisio. La prima galleria e' trasandata, le segnaletiche di lavori in corso messe cosi' tanto per fare. Lo specchio immediato dell'Italia di oggi. Evviva.
Arrivo a Udine dopo quindici ore di guida.
CONTINUA IL SACRIFICIO RITUALE DEGL INNOCENTI
Alberto Pasolini Zanelli
“L’epoca delle
guerre è finita”. Lo affermò Barack Obama, rieletto alla Casa Bianca e
insignito del Premio Nobel per la pace. Parole nobili e generose, ma tutt’altro
che profetiche. Lo si deve constatare per l’ennesima volta in queste ore in cui
dalla Casa Bianca giungono annunci dell’apertura di un nuovo fronte di un
conflitto che scavalca sempre nuove frontiere e si estende con una voracità che
pare ispirata alla memoria centenaria della Prima Guerra Mondiale di cent’anni fa. Se il presidente Usa si sta
rimangiando quel suo auspicio non è certo con entusiasmo bensì con riluttanza
estrema. Vi è costretto. Lo è stato quando ha ordinato il bombardamento delle
pendici della montagna su cui stava per consumarsi il sacrificio rituale di
centinaia di innocenti perseguitati per la fede eretica dei loro genitori e le
bombe Usa sui persecutori li hanno salvati. Come vendetta i fanatici del
Califfato hanno sgozzato un civile americano e “chiamano” di conseguenza una
rappresaglia sulle basi irachene di questa confraternita armata.
Il Califfato, lo
sanno ormai tutti, si estende dall’Irak alla Siria. E proprio in Siria quel
delitto è stato compiuto. Fra i due Paesi, retti un tempo da dittatori “laici”,
non esistono più frontiere, il quartier generale è semmai il territorio siriano
e dunque non avrebbe senso militare riconoscere un confine cancellato dai
fatti. Pare imminente una nuova ondata di incursioni aeree, invocate ormai
anche dai generali del Pentagono, tradizionalmente e saggiamente gli ultimi a
spingere per una guerra. A Damasco, probabilmente, non la pensano così, anche
se in teoria e in base al vecchio detto “il nemico del mio nemico è mio amico”,
il regime dovrebbe sentirsi confortato dalla caduta di qualche bomba sul suo più
accanito avversario in una guerra civile che dura ormai da tre anni e ha già
fatto, secondo le cifre ufficiali, oltre 190mila morti.
Ma tale non è
l’intenzione dei “falchi” di Washington e altrove, che fin dal primo giorno di
scontri a Damasco e dintorni insistono per un massiccio intervento occidentale
in favore dei “ribelli” contro la dittatura di Assad, anche se nel frattempo si
è visto che i più agguerriti fra i “combattenti per la libertà” sono i
tagliagole di una setta che è stata recentemente espulsa dalla “grande tenda”
di Al Qaida e del suo estremismo. E dunque probabile che la Siria diventerà o rimarrà
uno dei fronti principali di questa guerra dai tanti fronti. Quello di Libia
fra le bande fiorite sulle macerie del regime di Gheddafi, rovesciato con il contributo
determinante dell’Occidente. Quello dell’Egitto, sconvolto in un paio d’anni da
due rivoluzioni, due dittature e un periodo di potere degli estremisti
islamici. Quello di Gaza, di cui conosciamo le cronache anche minute e quasi
l’anagrafe delle vittime e dei caduti, molti guerriglieri del terrore e tanti
bambini. Quello dell’Irak e della Siria. Quello che di conseguenza si sta
disegnando nel Libano e minaccia di estendersi alla Giordania.
Questo nel Medio
Oriente. E in Europa? Le tensioni si stanno aggravando una volta di più in
Ucraina. Dopo il “golpe di piazza” che abbatté un governo filorusso, dopo il
controgolpe che riportò la
Crimea nella sfera di potere di Mosca, dopo la rivolta dell’Ucraina
Orientale e la creazione di un vero e proprio fronte bellico e l’esplosione di
una “guerra economica” centrata sulle sanzioni punitive dell’Occidente contro la Russia, ora sembra
delinearsi un ambiguo intervento militare di Mosca, nella forma di un massiccio
afflusso di “aiuti umanitari” di Putin: convogli della Croce Rossa simili a
colonne di Panzeri. E c’è, soprattutto in America, una forte spinta a un
intervento diretto che riaprirebbe, anche ufficialmente, quella Guerra Fredda di
cui l’Europa, si era liberato un quarto di secolo faa. No, il tempo delle
guerre non è proprio passato e neanche l’eventualità che gli europei vi vengano
di nuovo coinvolti. I falchi esistono anche da questa parte dell’Atlantico ed
esiste anche la controparte. Primo suo portavoce il premier finlandese che ha chiarito che
l’Ue non ha doveri militari al di là delle sue frontiere. Forse si ricordava di
una canzone satirica che fu popolare nel suo Paese proprio negli anni della
Prima Guerra Mondiale: “Saksa, Ranska, Itaria, Ritannia…”. Germania, Francia, Italia,
Gran Bretagna. La filastrocca non nomina la Russia: ma solo perché la Finlandia a quei tempi
ne faceva parte.
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