Alberto Pasolini Zanelli
La “notizia del
giorno” è una non-notizia. Lo sarebbe stata se la tregua appena annunciata nei
feroci combattimenti in corso a Gaza fosse durata anche solo la metà delle
settantadue ore di vita che le erano state diagnosticate e promesse. È bastata
la prima violazione perché si disintegrasse la “svolta” sorprendentemente
annunciata da personaggi importanti ma lontani, anche fisicamente, da quella
terra intrisa di sangue: Barack Obama dall’India e il Segretario dell’Onu dal
suo grattacielo a New York. Decisamente surreale suonava poi l’accettazione
delle parti, in così marcato contrasto non solo con le loro azioni ma anche con
le loro stesse parole, pronunciate e ripetute pluriquotidianamente e,
purtroppo, prevedibili e coerenti. Anche la scelta dei “mediatori” era parsa a
dir poco sorprendente a chi tenga presente almeno un poco gli intricati sentieri
della crisi e della guerra. Hamas aveva ben poco interesse ad abbassare la
temperatura di un conflitto rovinoso per la vita e la morte degli abitanti di
Gaza ma fruttuoso per la sua popolarità, che inevitabilmente cresce con l’indignazione
per la misura e i metodi del nemico; altrettanto poco credibile era una
“conversione” da parte di Netanyahu, superfalco di sempre e che a quanto pare sta
vincendo una sua battaglia parallela, riuscendo a compattare come non mai
l’opinione pubblica israeliana.
Niente di quello
che i belligeranti hanno fatto finora poteva indicare un’evoluzione delle
rispettive strategie, che nel linguaggio più articolato dei dirigenti dello
Stato ebraico si riassume nella decisione non di “indebolire” Hamas come era
stato il fine dei precedenti, periodici interventi militari, bensì di spezzarle
la schiena all’insegna di un’antica e tristissima verità: la guerra è guerra. Lo
ripetono anche i sostenitori in America, come Eliot Cohen, che nell’attaccare
Obama per le sue esitazioni, lo mette addirittura a contrasto con Abraham
Lincoln durante la guerra civile americana e cita un suo messaggio al generale
Grant nei giorni conclusivi di quel conflitto: “Continua a stringere e mordi e
soffoca più che puoi”. È quello che sta accadendo e nulla indica, ripeto, che la
tendenza stia per invertirsi. Netanyahu lo ha spiegato: non ha senso smettere
per poi ricominciare, questa volta la partita è finale, i soldati israeliani non
lasceranno Gaza. Potranno addirittura restarci per sempre.
Non tutti gli
americani la pensano così. La falange dei “falchi” è solida e compatta ma
l’opinione pubblica non è più così quasi unanime come lo era stata finora in
tutte le occasioni in cui il destino dello Stato ebraico era stato o era parso in
gioco. Sessanta americani su cento continuano a sostenerlo, ma il rapporto già
si inverte fra i giovani americani, che per la prima volta mostrano “simpatie”
non per la causa araba in genere, ma per la popolazione di Gaza, le sue
sofferenze e la sua assenza ormai di speranze. Fra coloro che esprimono
opinioni più “equilibrate” si fa strada, d’altro canto, la convinzione
realistica secondo cui a questo punto il male minore è proprio che la “striscia
maledetta” torni ad essere annessa ad Israele e le sue ridotte autonomie vengano
riconsegnate a chi governa il resto della Palestina. L’atmosfera però non è
evidentemente favorevole neppure a un ripensamento del genere. Anche perché, va
ripetuto, la “guerra di Gaza”, sanguinosa quanto ridotta geograficamente, non è
un conflitto isolato e neppure a due, ma è parte di una guerra globale in cui è
in gioco tutto il Medio Oriente e le cui dimensioni e i cui rischi sono
paragonabili, per una malvagia ironia della Storia, a quelli che sconvolsero
l’Europa cento anni fa, calcolati non più sul calendario ma addirittura sul
cronometro.