Alberto Pasolini Zanelli
Ogni pazienza ha un
limite. Ogni tolleranza, anche quella apparente di chi si sforza di guardare
lontano. Anche quella di un uomo fin troppo riflessivo come Barack Obama. La
barbarie dell’assassinio di James Foley ha spinto, forse costretto, l’uomo
della Casa Bianca a cedere all’indignazione e a sotterrare l’ascia di guerra. E
non soltanto a parole, anche se le parole sono state forse le più dure
pronunciate dal pulpito di un premio Nobel per la pace. “Sono degli assassini e
dei codardi, corrono di villaggio in villaggio facendo strage di innocenti,
rapiscono donne e bambini, li torturano, li stuprano, li vendono sul mercato
degli schiavi. Hanno assassinato dei musulmani a migliaia, ora prendono di mira
i cristiani e le minoranze religiose spinti soltanto dall’odio. Non possiamo
non reagire”.
E la risposta è già
venuta, sia dall’aria con i bombardamenti delle posizioni dei seguaci del
Califfato sia anche, pur con meno fortuna, in terra. Poche ore prima che Obama
facesse la sua “dichiarazione di guerra”, soldati americani hanno cercato di
salvare la vita del giornalista ostaggio, sono calati dal cielo sul luogo in
cui risultava egli fosse detenuto in attesa dell’esecuzione, hanno trovato il
posto vuoto e sono tornati a casa a mani vuote. L’annuncio di un raid fallito
ha però dato la misura dell’indignazione della Casa Bianca e della sua
decisione di reagire. Anche perché tutto sta ad indicare che la decapitazione
di James Foley potrebbe essere stata la prima di una serie. Il messaggio della
Isis è chiaro quanto truce. Dice all’America che “adesso che siete intervenuti
siete il nostro nemico e ve la faremo pagare”. Il Califfo o chi per lui intende
aumentare la pressione su Washington e la prossima tappa potrebbe essere
l’esecuzione di un altro giornalista americano Steven Sotloff, che fino a
questo momento è stato detenuto assieme a Foley. Lo mostra fra l’altro il video
messo in circolazione dagli assassini: all’esibizione della testa mozzata segue
una parentesi di oscuramento e poi compare il secondo ostaggio, nello stesso
panorama di dune desertiche, vestito come il collega appena ucciso, come lui
ammanettato sul dorso. Una minaccia fin troppo chiara, probabilmente il
dettaglio che ha spinto Obama a rispondere così nettamente e a rivelare il
tentativo che è stato fatto di salvarli.
Che non tutti hanno
apprezzato a Washington. Proprio dal Pentagono è arrivata una sorta di
dissociazione: “Farlo sapere rende il nostro compito più difficile e la
prossima operazione ancora più dura”. Gli ostaggi da usare per il ricatto e la
vendetta sono numerosi: una ventina di giornalisti di diverse nazionalità, un
gesuita italiano, molti cittadini turchi. E le ambasciate sono in “allarme
rosso” in tutto il mondo. E la tragedia delle tante guerre nel Medio Oriente ha
finalmente cominciato a rompere il monopolio dell’attenzione del pubblico
americano, prigioniera per due settimane del pur angoscioso dramma delle
tensioni razziali succedute all’uccisione di un ragazzo di pelle scura disarmato
da parte di un poliziotto troppo zelante e forse un po’ razzista. È un dramma
che ha forti radici nel passato dell’America: quell’altra morte così barbara è
invece parte, purtroppo, di un dramma attualissimo anche se in corso da mesi e
mesi e probabilmente sottovalutato. Lo sottolinea il fatto che ha avuto per
teatro la Siria,
dove una guerra civile è in corso da tre anni con 180mila morti, dove è esplosa
la minaccia e la forza di una organizzazione di un gruppo jihadista che lo
stesso movimento creato da Osama Bin Laden aveva da tempo radiato dai propri
ranghi perché troppo estremista (Bin Laden, da vivo, aveva anche profetizzato
che esso è destinato alla sconfitta). In tutto questo l’America ha esitato.
Solo quando i seguaci del Califfo sono dilagati dalla Siria in Irak, fatto
strage di “eretici” e di cristiani, minacciato di prendere controllo della
produzione petrolifera, Washington ha reagito, riprendendo ad armare l’esercito
iracheno, fatto pressione sulle “cosche” politiche di Bagdad, cercato di
mobilitare una resistenza il più possibile concorde sotto l’ombrello aereo Usa.
Non è detto che non sia troppo tardi. Sappiamo molto della lunga storia
dell’Irak prima e dopo l’infelice intervento voluto da George W. Bush, ma
ricordiamo troppo poco che il focolaio primo di questo incendio nel Medio
Oriente è stato la Siria
e che l’Occidente, invece di prevedere l’assalto dei fondamentalisti, ha per
lungo tempo aiutato in tutti i modi, anche militarmente, le forze eterogenee
che combattevano il regime di Damasco e sono riuscite soltanto a indebolirlo,
aprendo così la strada all’incubo che si chiama Califfato.