Alberto
Pasolini Zanelli
Tutto è
relativo: l’Afghanistan era stato nelle ultime settimane il più “tranquillo”
fra i tanti, troppi “fronti” della Guerra Mondiale 2014. Altrove si lanciavano
offensive e controffensive, in Ucraina cadevano aerei di linea, a Gaza bambini
morivano sulle spiagge, in Siria e in Irak si scatenava l’avanzata trionfale
dei “dervisci” del Califfo. In Afghanistan qualcuno moriva qua e là in
imboscate varie ma principalmente si discuteva: per decidere chi aveva vinto le
elezioni di giugno. Un esito contestato dopo una campagna elettorale in cui le
pistole facevano concorrenza alle schede, ma i due concorrenti “finalisti”
facevano almeno finta di discutere, con gli americani a fare i mediatori. Tanto
la decisione importante era già stata presa. Dopo anni di discussione la Casa
Bianca aveva completato e “firmato” il piano per il ritiro da Kabul per
concludere – aveva detto Obama – “una guerra che l’America non ha voluto” in un
Paese in cui nessuno vuole più stare e insomma era “tempo di voltare pagina”.
Entro quest’anno se ne dovevano andare le decine di migliaia di soldati Usa,
lasciandone ancora per dodici mesi qualcuno ad aiutare l’apparato militare
afghano a diventare autosufficiente. I comandi Usa avevano discusso a lungo se
i loro “eredi” indigeni sarebbero stati pronti, avevano deciso di sì,
accelerato i tempi dell’istruzione.
Era in questo
quadro, in questa “quotidianità” che il generale Harold Greene, “numero due”
della gerarchia Usa in Afghanistan, si era recato in visita a una caserma
dell’esercito di Kabul, per farsi un’idea della situazione, dare qualche
consiglio, portare avanti insomma il passaggio delle consegne. Lo
accompagnavano ufficiali di tutta la “forza di pace” alleata, fra cui un
collega tedesco. Doveva essere quasi una cerimonia di chiusura: per il generale
Greene la guerra in Afghanistan è finita, sotto le raffiche di un soldato che
indossava la divisa giusta ma aveva il cuore, gli odii, le passioni dall’altra
parte. È così che l’Afghanistan è tornato agli onori delle cronache. Si
bloccheranno, adesso, i negoziati? Non è detto. È più probabile, semmai, che la
Casa Bianca si lasci convincere ad aumentare, almeno temporaneamente, la forza
del contingente Usa altrimenti, aveva detto un paio di settimane fa un altro
generale, collega del caduto, “rischiamo di perdere quanto abbiamo costruito in
ormai tredici anni da quell’intervento, frettoloso e non sempre felice che si
era reso necessario agli occhi del predecessore di Obama come risposta alla
strage terroristica di New York, “teleguidata” dall’Afghanistan.
La convinzione
del successore, anche nel mezzo della tempesta planetaria di adesso, è che il
terrorismo resta una grave minaccia ma non è l’unico pericolo incombente sul
mondo: ci sono di nuovo guerre “classiche” e rivalità politico-economiche che
sfiorano addirittura i ricordi della Guerra Fredda. È da escludere, però, un
cambiamento di rotta: migliaia di soldati americani sono morti a Kabul e
dintorni, centinaia di militari nei Paesi alleati (inclusa, non dimentichiamolo,
l’Italia) e decine e decine di migliaia di afghani nelle varie fazioni e nelle
diverse tribù. Non è possibile, inoltre, dimenticare i costi delle guerre
afghane precedenti, particolarmente della penultima che al posto dell’America
vide impegnata in prima linea l’Unione Sovietica e fu anzi l’ultima spinta
decisiva nel determinarne il crollo. Ricordo proprio negli ultimi giorni prima
che fosse ammainata la bandiera rossa sul Cremlino di aver visitato una mostra,
la prima “non ufficiale” di immagini sanguinose dei “disastri della guerra” più
inutile ancora delle altre. Alla presenza russa seguì una guerra civile
afghana, poi il dominio dei talebani, poi la guerra con gli Usa. Il giorno in
cui il primo soldato americano mise piede su quelle montagne, il generale che
aveva comandato le armate dell’Urss pubblicò un articolo sul New York Times, raccontando i suoi
errori e prevedendo che gli americani sarebbero incorsi più o meno negli
stessi.